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Europa. L'Irlanda ha detto si
10.10.2009

L’Irlanda "ha detto sì" e finalmente si allontana lo spauracchio di un blocco del Trattato di Lisbona. di Patrizia Toia mail@patriziatoia.it

L’Irlanda "ha detto sì" e finalmente si allontana lo spauracchio di un blocco del Trattato di Lisbona, anche se ancora in Polonia e in Repubblica Ceca si agitano tentativi di revisione o, comunque, di ostacolare questo percorso e anche se ulteriori incertezze si registrano in Gran Bretagna, per la fibrillazione tra la possibile vittoria dei Tory e l’eventuale incarico a Blair quale presidente dell’UE.

Ma intanto questo importante sì è arrivato e adesso l’Unione europea non può più attardarsi in un limbo impotente (anche le elezioni tedesche ormai si sono tenute), deve prendere lo slancio, deve assumersi la sua forte responsabilità in un mondo che sta, molto molto rapidamente, camminando verso un "nuovo ordine", cioè verso un assetto di potere, di soggetti e di ruoli molto diverso dal passato.

L’impossibilità di poter far entrare in vigore il Trattato ha offerto un comodo alibi alle incertezze degli Stati membri rispetto all’integrazione europea, ha consentito di far tornare in primo piano il peso degli interessi nazionali e, in sintesi, ha dato ad una classe dirigente europea troppo ondivaga e titubante una comoda copertura.

Ora tutto questo non c’è più, la "maschera è stata strappata", come ha detto Venturini sul Corriere della Sera, e i vertici europei dovranno dimostrare le loro vere intenzioni.

Si faranno le grandi riforme economiche e si rafforzerà o no il contenuto della dimensione sociale dell’Europa?

Si sarà coerenti sulle politiche di difesa ambientale? Si avrà il coraggio di affrontare anche il tema fiscale e si troverà un effettivo consenso e forte impegno per gestire, insieme, il grande flusso dell’immigrazione?

E ancora: l’Europa dei Paesi più forti, economicamente e storicamente, comprenderà (e pagherà il prezzo conseguente) che anche lo sviluppo dell’Europa orientale è una risposta lungimirante alle paure dei lavoratori dei paesi più sviluppati?

E, più in generale, l’Europa si caricherà sulle sue spalle politiche coraggiose per uscire dalla crisi che permane gravissima per l’occupazione e le piccole imprese?

Rilanciare l’Unione ora è più possibile di prima, ma va detto che il Trattato è necessario, ma non sufficiente.

Occorre una profonda volontà politica e una forte capacità di leadership per riorientare il futuro e la collocazione dell’Ue nel mondo.

Vi sono stati infatti alcuni appuntamenti importanti in questo inizio di autunno (l’Assemblea dell’ONU e il G20 di Pittsburg) e altri stanno per arrivare, come il Vertice di Copenhagen sul riscaldamento globale.

Nel corso di queste tappe prendono corpo tentativi di nuove forme di governo del mondo, che segnano un netto cambiamento del quadro di riferimento del passato, quando l’Europa, nella forza o nella debolezza, conosceva il proprio ruolo e il proprio "campo di gioco" e di alleanze.

All’ONU e poi a Pittsburg, al di là dei suoi risultati, sono emersi con chiarezza alcuni dati.

Innanzitutto il carisma di Obama, anche per contrastare una perdita di centralità degli USA nel mondo, sta spingendolo a muoversi a tutto campo, a ricercare dialogo col mondo arabo, a gettare ponti, sia pure con fermezza, all’Iran e a proiettare una spinta verso la pace nel Medio Oriente, ad affrontare, anche in termini critici, la difficile partita afgana, dove tra sospetti di brogli e attentati crescenti, lo scenario è di una fase bellica sempre più incandescente e non in via di superamento.

E’ emerso chiaro che gli USA ( e tanto più l’Europa) non sono più al centro del mondo (unipolare o bipolare che sia stata l’equilibrio su cui si poggiava): si è molto indebolito il loro ruolo con l’irruzione, sulla scena mondiale, di Cina e India, e anche del Brasile. Sono potenze che dopo aver raggiunto nuovi livelli di sviluppo economico e di forte interdipendenza, anche finanziaria, con tutte le aree forti del mondo, vogliono "contare" anche politicamente ed essere protagonisti , così come vogliono contare le altre aree del mondo, quello meno sviluppato, e anche quello più arretrato (si pensi all’africa).

Il mondo è uno, è di tutti ed è estremamente intrecciato, nel bene e anche nel male.

E’ per questo (altro effetto di questa fase di evoluzione mondiale) che è ormai il G20 il solo consesso che può assumere, con qualche prospettiva di efficacia, le decisioni globali, relegando il G8 al piano di un passato che non c’è più, anche se sopravvive e si mantiene legato a certe scadenze.

Ed è persino un po’ emblematico che l’ultimo (temporalmente) G8, impotente e assai poco decisivo, si sia svolto con la rutilante regia mediatica di Berlusconi, nella cornice, carica di tragedia e di dolore, de L’Aquila.

Accanto alle nuove potenze e alla voce (ancora flebile, ma presente) del mondo nuovo e povero, ecco che acquistano peso e valore il fondo Monetario Internazionale e le altre agenzie finanziarie, che però devono assolutamente cambiare registro, cioè aprirsi ad una riforma forte perché i nuovi poteri e le maggiori risorse si accompagnino ad un quadro più trasparente delle responsabilità e ad una gestione "meno dispendiosa e ostentata" di quanto fin qui si è visto nel mondo, oltre che ad una logica di mission più accentuatamente vocata allo sviluppo integrale e alla ristrutturazione finanziaria.

L’urgenza e ormai l’indispensabilità di questo consesso così globale è fondata non solo sulla dimensione globale dei problemi, sulla necessità di risposte comuni e condivise, ma anche sulla consapevolezza che ogni crisi e ogni novità in una certa parte del mondo ricadrà come opportunità o peso su un’altra.

Da questo punto di vista sono incredibilmente spaventosi alcuni dati che cominciano a circolare (e i primi studi sono arrivati sui nostri tavoli a Bruxelles e provengono dalla Banca Mondiale) sugli effetti economici e sociali della grave crisi finanziaria dell’Occidente e anche dei costi e delle ricadute del surriscaldamento globale sui Paesi più poveri.

Le decisioni per ora sono ancora troppo timide rispetto alla portata della sfida, ma qualche carta, sul tavolo, è stata messa.

A Pittsburg, ad esempio, si sono tracciati gli orientamenti per il governo finanziario ed economico globale, rafforzando la lotta ai protezionismi e la scelta di uno sviluppo sostenibile, limitando (ma bisogna fare di più) gli scandalosi compensi dei banchieri, siano essi bonus o altro.

E l’Europa? In questo mondo in movimento l’Europa non può (ma rischia forte) farsi emarginare. Per questo deve essere unita, forte ed efficace: fondamentale (anche se non sufficiente) è l’entrata in funzione del Trattato.

Occorre un’Europa unita, forte ed efficace.

L’unità è l’unità politica, la voce unica, la chiarezza e coerenza degli obiettivi, il superamento delle divisioni e degli interessi nazionali, per scelte comuni di politiche economiche e sociali.

La forza è la coesione, è la capacità di governare sviluppi all’interno, di liberare competenza e innovazione, di aumentare il livello di formazione delle risorse umane e di promuovere una logica di maggior occupazione e di sostenibilità ambientale, perchè l’economia europea sia un’economia del futuro.

L’efficacia è la capacità di decidere rapidamente e di e di operare con efficienza e snellezza, raggiungendo i risultati stabiliti, senza attardarsi in ritardi burocratici o in impedimenti e blocchi politici., alla ricerca di un unanimità che diventa pesantezza e lentezza.

Questa è l’Europa che oggi deve partire, anche se il clima politico di questo continente è molto conservatore e se serpeggiano forti correnti antieuropeiste!

Ma la "storia" chiama questa Europa ad un appuntamento ineludibile e forse questa consapevolezza sarà la necessità che diventerà virtù.

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