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Quando gli schiavi si ribellano di Lucio Garofalo
10.01.2010

Quando gli schiavi si ribellano e la loro rabbia spaventa la borghesia
La rivolta rabbiosa ed improvvisa (ma prevedibile) dei braccianti africani
della piana di Gioia Tauro, che hanno messo in atto una furiosa guerriglia
urbana che rievoca le scene incendiarie della banlieue parigina o dei ghetti
di Los Angeles di alcuni anni fa, ha turbato i sonni tranquilli di una
società piccolo-borghese che si è ridestata attonita e sgomenta dal torpore
in cui sono sprofondate pure le masse proletarie italiane, vittime di un
razzismo strisciante alimentato quotidianamente dai media e dal governo in
carica.
Gli ipocriti e i benpensanti si scandalizzano facilmente di fronte alla
rivolta degli immigrati, deprecando l'aggressività e la rabbia con cui si è
manifestata, celebrando l'intervento armato delle forze dell'ordine, come se
la violenza di chi reagisce all'oppressione non abbia una ragione morale
superiore alla violenza perpetrata dall'oppressore. Gli schiavi non possono
e non devono ribellarsi al loro padrone.
La violenza fa parte di una società che la condanna come un delitto quando
ad esercitarla sono gli ultimi e i più deboli, i negri, i proletari e gli
oppressi in genere, ma viene legittimata come un diritto quando è una
violenza sistemica esercitata dal potere, per cui viene autorizzata in
termini di repressione armata finalizzata alla salvaguardia dell'ordine
costituito, un ordine retto (appunto) sulla violenza di classe.
Non a caso la violenza viene esecrata solo quando è opera degli oppressi e
degli sfruttati. Si pensi alla rivolta di massa che alcuni anni fa esplose
con furore nella banlieue parigina, espandendosi con la rapidità di un
incendio alle altre periferie suburbane della Francia. Si pensi
all'esplosione di rabbia e violenza dei lavoratori immigrati di Rosarno, in
maggioranza di origine africana, oppressi e sfruttati a nero, maltrattati e
vessati dai caporali e dalla criminalità al limite della sopportazione
umana.
Per comprendere tali fenomeni sociali occorre rendersi conto di ciò che
sono diventate le aree periferiche e suburbane in Francia, ossia luoghi di
ghettizzazione, degrado ed emarginazione, occorre verificare le condizioni
brutali e disumane in cui sono costretti a vivere i lavoratori agricoli
immigrati in Italia, sfruttati al massimo dagli sciacalli della malavita
organizzata locale e dal padronato capitalistico di stampo mafioso e legale.
In Italia meridionale si è formato un vero e proprio esercito di
forza-lavoro migrante, in gran parte di origine africana, che si muove
periodicamente dalla Campania alla Puglia, dalla Calabria alla Sicilia,
seguendo il ciclo dei raccolti agricoli, che lavora nei campi in condizioni
al limite della schiavitù e vive in ghetti subumani costituiti da baracche
di cartone e nylon sostenute da fasce di plastica nera, in aree misere e
degradate.
Questi braccianti irregolari, in quanto clandestini, sono costretti a
lavorare a nero e sotto al sole per 14 ore al giorno, retribuiti con meno di
20 euro giornalieri, sfruttati in condizione di estrema ricattabilità,
sottoposti all'arroganza dei caporali e alle vessazioni della criminalità
mafiosa che controlla sia i flussi migratori che il lavoro nero. Questa
manodopera agricola offerta a bassissimo costo è estremamente conveniente,
in quanto viene prestata senza rispettare alcun contratto sindacale e quindi
senza osservare alcuna norma di sicurezza e di retribuzione, consentendo
notevoli profitti economici.
Dunque, per capire l'emblematica rivolta dei "nuovi schiavi" bisognerebbe
calarsi nella loro realtà quotidiana dove il disagio sociale e materiale, il
degrado urbano, la violenza e lo sfruttamento di classe, la precarietà
economica, il dolore, la disperazione e l'emarginazione degli
extracomunitari, costituiscono il retroterra materiale, sociale ed
ambientale che produce inevitabilmente drammatiche esplosioni di rabbia,
violenza e guerriglia urbana come quelle a cui abbiamo assistito in questi
ultimi giorni in Calabria.
Invece, tali vicende sono etichettate e liquidate (ingiustamente e
banalmente) come atti di "teppismo" e "delinquenza", secondo parametri
razzisti e classisti che sono tipici di una mentalità ipocrita e benpensante
che da sempre appartiene alla piccola borghesia.
Lucio Garofalo
Avellino

Nota della redazione.
L’articolo del Sig. Lucio Garofalo che volentieri abbiamo pubblicato non ci trova d’accordo su un punto che come redazione evidenziamo.
La “ violenza degli oppressi”, come si potrebbe definire, in questo modello sociale non può essere giustificata. Va socialmente compresa questo si ! Essa è una reazione estrema ad una società sicuramente fortemente ingiusta ma che non aiuta a fare passi in avanti, anzi alimenta il fuoco del razzismo…C’è da chiudersi come mai in quella realtà si è potuto far crescere una situazione così esplosiva. Non è solo responsabilità “ della piccola borghesia” .Una parte di responsabilità è anche di quelle forze democratiche,progressiste e sindacali che in questi anni hanno fatto la parte dello “struzzo”.
Gian Carlo Storti
Direttore di www.welfareitalia.it

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