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Bucaneve (di Paola Carini)
5.02.2010
Nella California settentrionale è consigliabile fuggire a gambe levate dai boschi quando si avvertono le zaffate maleodoranti che preannunciano l’arrivo del sasquatch, l’uomo delle nevi ben conosciuto dai nativo-americani di tutta l’area del Pacifico nordoccidentale; parimenti a Robin Ridington, studioso delle nazioni tribali della Columbia Britannica, venne riferito che le ranocchie “cantano, danzano e giocano d’azzardo” nelle acque più profonde degli stagni di quell’area. Dopo aver elaborato il proprio sconcerto di fronte a tali, bizzarre, affermazioni, Ridington concluse che “il linguaggio della scienza sociale occidentale parte dal presupposto che la realtà oggettiva sia indipendente dall’esperienza individuale; il linguaggio dei racconti indiani parte dal presupposto che l’oggettività possa essere affrontata solamente facendone l’esperienza”. In effetti, trovare conferma o meno che certe rane canadesi abbiano abitudini gaudenti è misurare con razionale oggettività l’asserzione, così come rilevarne l’aspetto metaforico è fermarsi inevitabilmente alla sua superficie. Ascoltarla con serietà e attenzione implica non più semplicemente stabilire se l’enunciato corrisponda ai fatti o se sia la bonaria presa in giro dell’antropologo da parte dell’indiano – l’ironia arguta è un tratto distintivo delle genti nativo-americane – ma rendersi conto che ci si trova nel territorio inedito dell’oralità, in una dimensione del linguaggio in cui le parole sono sottili e dense, delicate e potenti. Le parole, come dicono i kiowa, sono frecce ben scoccate, e per questo vanno soppesate e usate con cura.

“Nella tradizione orale le parole sono pronunciate con grande attenzione, e vengono ascoltate. Avendo esse importanza non vengono date per scontate, sono prese sul serio, e sono ricordate”.
Scott Momaday, premio Pulitzer per la letteratura e professore universitario di origini kiowa, definisce in questo modo l’atto verbale nel contesto delle popolazioni nativo-americane. Culture non-scritte, per secoli esse si affidarono alla rappresentazione simbolica: gli ojibwe registravano i costumi più segreti e le profezie su fogli di corteccia di betulla, gli haudenausaune decoravano strisce a forma di cinte con disegni e simboli che ripercorrevano gli avvenimenti storici più salienti e i termini diplomatici degli accordi intertribali, gli indiani delle Grandi Pianure dipingevano pelli di bufalo chiamate winter counts per celebrare gesta, battaglie ed altri episodi tribali. L’ingente patrimonio della memoria collettiva tribale veniva conservato da sistemi di simboli che ne condensavano il pensiero e veniva ritrasmesso da un codice, la lingua, che non poteva non esprimerne la stratificata complessità. Dagli svariati termini usati dagli inuit per identificare microscopiche diversità nella neve e nel ghiaccio alla differenziazione tra pioggia maschile e femminile degli hopi, esse colgono le sfumature del mondo naturale in un numero infinitamente maggiore che le lingue europee, ma quei lemmi racchiudono ben più che uno spiccato spirito di osservazione: essi contengono l’intero mondo e gli esseri umani, l’esperienza del trascendente e della quotidianità, la vita dell’individuo e le tradizioni e le credenze della sua comunità. Pronunciate con cautela e recepite con attenzione, le parole amerindie sono la forma di un’idea di mondo e l’espressione della consapevolezza di un popolo che la Storia ha cercato di cancellare.

Negli anni cinquanta del milleottocento le nazioni tribali dell’area sudoccidentale dello stato dell’Oregon vennero rinchiuse in riserve. Pochi vi sfuggirono, ma tra i pochi molte furono le donne. In un tacito accordo, riporta lo studioso Peter Nabokov, esse si assunsero “la responsabilità di salvaguardare le storie orali e i miti” della propria gente pur sposando uomini bianchi. Queste storie riemersero incredibilmente quasi un secolo dopo, negli anni novanta del millenovecento, e con loro tutto ciò che di prezioso racchiudevano: le radici della tradizione, le generazioni di uomini e donne che le avevano precedute, l’identità tribale. Le parole, esili ma resilienti come bucaneve, si erano fatte sopravvivenza.

Nelle lingue amerindie i sostantivi spesso non si distinguono per genere femminile o maschile ma per esseri animati o inanimati. Ritenere le pietre animate, al pari di esseri umani e animali, indica un modo pensare ben diverso da quello delle lingue occidentali, e le differenze non si fermano qui: le lingue dei nativo-americani esprimono la sensibilità di un popolo e la coscienza che quel popolo ha di sé stesso, trasfondono l’incommensurabile e traducono l’astratto nell’esistenza umana. “Sono le donne ad avere avuto il merito di iniziare il calcolo matematico tra gli ojibwe” spiega a questo proposito la scrittrice ojibwe Louise Erdrich. “Iniziarono le donne perché interessate al proprio ciclo mestruale, al computo dei giorni per conoscere il momento in cui sarebbero state fertili. Seguivano attentamente le fasi lunari per metterle in relazione col proprio corpo in modo da sapere quando sarebbero nati i loro bambini. E dovevano essere accurate, per potersi preparare al meglio. Partorire in un punto non protetto durante un rigido inverno ojibwe poteva essere letale. Le donne si preparavano per essere vicine ai propri familiari o ad altre donne sapienti. La matematica non era cosa astratta. Era intima. Dividere, moltiplicare e scomporre in fattori erano questioni del corpo, oltre che di sopravvivenza”. Il corpo, traduzione fisica di consapevolezze profonde, ad oggi nella lingua ojibwe non è utilizzabile come gergo dispregiativo. Nessuna parte del corpo è usata come epiteto offensivo perché nulla che appartiene al corpo umano può offendere - la radice della parola Terra è la stessa della parola vagina, ci dice la Erdrich, ed anche questa è una notevole differenza.

Le lingue amerindie sono un modo tribale unico di intendere la vita e il mistero della vita, di porsi verso gli altri e di relazionarsi con sé stessi. Non si tratta di principi formali enunciati da lemmi, poiché ogni parola è la ricerca di equilibrio, di compassione, di rispetto per il mondo e per ciò che esso contiene tradotta nel vissuto; ognuna è frammento di questa esperienza fattasi linguaggio, delicata ma resiliente come un bucaneve.

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