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Arbitrato: le ragioni del rinvio di Claudio Treves
2.04.2010

Rinvio alle camere da parte del presidente della Repubblica della legge sull'arbitrato di Claudio Treves
Come potete facilmente constatare, si tratta della conferma della fondatezza di quelle espresse dalla CGIL, dall’appello dei giuslavoristi, dagli avvocati giuslavoristi: insomma di tutto il mondo che si era mosso, durante il lungo iter parlamentare e spesso nell’indifferenza di molti, segnalando come si volesse con quelle norme stravolgere l’impianto del diritto del lavoro.
Puntualmente, il messaggio del Presidente contesta la presunta parità tra i contraenti nel rapporto di lavoro, che inficia alle radici la supposta “libertà” di devolvere ad arbitri ogni futura controversia. Vengono utilmente citate le sentenze della Corte Costituzionale che escludono il ricorso obbligatorio agli arbitri, e, cosa che vi segnalo per la sua pertinenza, una sentenza della Corte che fa decorrere il periodo di prescrizione per le contestazioni sulle retribuzioni dalla scadenza del rapporto di lavoro, e non dalla sua costituzione come in ogni altro rapporto commerciale, sostenendo che la libertà di contestare eventuali differenze retributive non sia tale nel corso del rapporto, per le ricadute possibili sul suo prosieguo, e quindi a maggior ragione viene posto in crisi il concetto di “libera pattuizione” che il legislatore presume essere applicabile addirittura al momento della stipula del contratto di lavoro.
Altro punto messo in luce, il rapporto distorto tra legge, contrattazione collettiva e pattuizioni individuali: non sembra accettabile, a giudizio del Presidente, una legislazione che diminuisce diritti, e delega in bianco la contrattazione collettiva a fare da fonte normativa, fino ad ammettere pari grado di cogenza alle pattuizioni individuali. Qui si annida la pericolosità della “Dichiarazione comune” stipulata, davvero improvvidamente, al Ministero del lavoro l’11 marzo u.s. dalle controparti con CISL e UIL e sotto i “buoni uffici” del Ministro Sacconi. Molto opportunamente il Presidente torna a ribadire la necessità, in tema di diritti del lavoro, di norme inderogabili fissate in legge, che possono demandare l’implementazione alla contrattazione collettiva, ma che debbono anche specificare lo spazio per eventuali deroghe definite dalla stessa contrattazione collettiva e l’eventuale ambito per le pattuizioni individuali; mentre non è ammissibile il contrario.
Il messaggio segnala problemi anche sugli articoli 30 e 50 (certificazione e disposizioni sui collaboratori), su cui forse qualche parola in più sarebbe stata utile, ma che possono essere fatti risalire alla stessa linea di interpretazione, con l’aggiunta, nel caso dell’art.50, sull’efficacia delle disposizioni sui giudizi in corso, cosa che la Corte aveva già respinto a proposito delle norme contenute nell’art. 21 della legge 133/08 (Sentenza n. 214/09, propiziata dai molti ricorsi promossi dalle strutture della CGIL).
Infine, l’articolo 21, relativo al contenzioso sull’amianto, è il logico corollario di posizioni unitariamente definite nel tempo dai sindacati dei trasporti.
Adesso si dovrà contrastare con forza ogni tentativo, all’opera già in queste ore, di minimizzare la portata dei rilievi del Capo dello Stato, ad es. immaginando di allargare ulteriormente lo spazio per le decisioni delle parti (la cosiddetta “sussidiarietà” enfatizzata dal Ministro). Tocca a noi, a tutti i livelli, contattare rapidamente i parlamentari, suggerire ordini del giorno da presentare nei neo eletti Consigli regionali, programmare iniziative pubbliche, almeno una in ogni Regione, e interne di organizzazione, volte a far crescere la consapevolezza della partita che si sta riaprendo.
Con un minimo di soddisfazione per il riconoscimento di un lavoro svolto in condizioni non facili, si tratta ora di rafforzare la nostra azione. Nei prossimi giorni la CGIL deciderà probabilmente forme ulteriori di iniziativa (petizioni, appelli, ecc.).
Fonte: cgil nazionale
Testo integrale del messaggio del Presidente Napolitano alle Camere Palazzo del Quirinale, 31/03/2010
Testo integrale del Messaggio motivato con il quale il Presidente Napolitano ha chiesto alle Camere una nuova deliberazione sulla Legge recante: "Deleghe al Governo in materia
di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e isposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro".
"Onorevoli Parlamentari, mi è stata sottoposta, per la promulgazione, la legge recante: "Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di
ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e
disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro".
Il provvedimento, che nasce come stralcio di un disegno di legge collegato alla legge finanziaria 2009 (Camera n.1441-quater), ha avuto un travagliato iter parlamentare nel
corso del quale il testo, che all'origine constava di 9 articoli e 39 commi e già interveniva in settori tra loro diversi, si è trasformato in una legge molto complessa, composta da 50
articoli e 140 commi riferiti alle materie più disparate.
Questa configurazione marcatamente eterogenea dell'atto normativo - che risulta, del resto, dallo stesso titolo sopra riportato - è resa ancora più evidente da una sia pur
sintetica e parziale elencazione delle principali materie oggetto di disciplina: revisione della normativa in tema di lavori usuranti, riorganizzazione degli enti vigilati dal Ministero del
lavoro e delle politiche sociali e dal Ministero della salute, regolamentazione della Commissione per la vigilanza sul doping e la tutela della salute nelle attività sportive,
misure contro il lavoro sommerso, disposizioni riguardanti i medici e professionisti sanitari extracomunitari, permessi per l'assistenza ai portatori di handicap, ispezioni nei luoghi di
lavoro, indicatori di situazione economica equivalente, indennizzi per aziende in crisi, numerosi aspetti della disciplina del pubblico impiego (con conferimento di varie deleghe o
il rinvio a successive disposizioni legislative), nonché una ampia riforma del codice di procedura civile per quanto attiene alle disposizioni in materia di conciliazione e arbitrato
nelle controversie individuali di lavoro.
Ho già avuto altre volte occasione di sottolineare gli effetti negativi di questo modo di legiferare sulla conoscibilità e comprensibilità delle disposizioni, sulla organicità del
sistema normativo e quindi sulla certezza del diritto; nonché sullo stesso svolgimento del procedimento legislativo, per la impossibilità di coinvolgere a pieno titolo nella fase
istruttoria tutte le Commissioni parlamentari competenti per ciascuna delle materie interessate. Nel caso specifico l'esame referente si è concentrato alla Camera nella
Commissione lavoro e al Senato nelle Commissioni affari costituzionali e lavoro, mentre, ad esempio, la Commissione giustizia di entrambi i rami del Parlamento ed anche la
Commissione affari costituzionali della Camera sono intervenute esclusivamente in sede consultiva e non hanno potuto seguire l'esame in Assemblea nelle forme consentite dai
rispettivi Regolamenti. Tali inconvenienti risultano ancora più gravi allorché si intervenga, come in questo caso, in modo novellistico su codici e leggi organiche.
Ciò premesso - con l'auspicio di una attenta riflessione sul modo in cui procedere nel futuro alla definizione di provvedimenti legislativi, specialmente se relativi a materie di
particolare rilievo e complessità - sono indotto a chiedere alle Camere una nuova deliberazione sulla presente legge dalla particolare problematicità di alcune disposizioni
che disciplinano temi di indubbia delicatezza sul piano sociale, attinenti alla tutela del diritto alla salute e di altri diritti dei lavoratori: temi sui quali - nell'esercizio del mio mandato
- ho ritenuto di dover richiamare più volte l'attenzione delle istituzioni, delle parti sociali e dell'opinione pubblica.
Intendo qui riferirmi specificamente all'articolo 31 che modifica le disposizioni del codice di procedura civile in materia di conciliazione ed arbitrato nelle controversie individuali di
lavoro e all'articolo 20 relativo alla responsabilità per le infezioni da amianto subite dal personale che presta la sua opera sul naviglio di Stato. Su di essi sottopongo alla vostra
attenzione le considerazioni ed osservazioni che seguono.
1. L'articolo 31, nei primi nove commi, che ne costituiscono la parte più significativa, modifica in modo rilevante la sezione prima del capo primo del titolo quarto del libro
secondo del codice di procedura civile, nella parte in cui reca le disposizioni sul tentativo di conciliazione e sull'arbitrato nelle controversie individuali di lavoro (artt. da 409 a 412-
quater del codice di procedura civile), introducendo varie modalità di composizione delle controversie di lavoro alternative al ricorso al giudice. Apporta inoltre, negli ultimi sette
commi, una serie di modifiche al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, dirette a rafforzare le competenze delle commissioni di certificazione dei contratti di lavoro.
La introduzione nell'ordinamento di strumenti idonei a prevenire l'insorgere di controversie ed a semplificarne ed accelerarne le modalità di definizione può risultare certamente
apprezzabile e merita di essere valutata con spirito aperto: ma occorre verificare attentamente che le relative disposizioni siano pienamente coerenti con i princìpi della
volontarietà dell'arbitrato e della necessità di assicurare una adeguata tutela del contraente debole.
Entrambi questi princìpi sono stati costantemente affermati in numerose pronunce dalla orte Costituzionale. La Corte infatti ha innanzi tutto dichiarato la illegittimità costituzionale
delle norme che prevedono il ricorso obbligatorio all'arbitrato, poiché solo la concorde olontà delle parti può consentire deroghe al fondamentale principio di statualità ed
esclusività della giurisdizione (art. 102, primo comma, della Costituzione) e al diritto di tutti cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi (artt. 24 e 25
della Costituzione). Inoltre, con riferimento ai rapporti nei quali sussiste un evidente, mrcato squilibrio di potere contrattuale tra le parti, la Corte ha riconosciuto la necessità di
garantire la "effettiva" volontarietà delle negoziazioni e delle eventuali rinunce, ancora una volta con speciale riguardo ai rapporti di lavoro ed alla tutela dei diritti del lavoratore in
sede giurisdizionale. Questa linea giurisprudenziale, ripresa e sviluppata dalla Corte di Cassazione, ha condotto a far decorrere la prescrizione dei crediti di lavoro nei rapporti
privi della garanzia della stabilità dalla cessazione del rapporto. Ciò in analogia con quanto previsto dall'art. 2113 del Codice civile in ordine alla decorrenza del termine per
l'impugnazione di rinunce e transazioni che abbiano avuto ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi (si
vedano le sentenze della Corte Costituzionale n. 63 del 1966, n. 143 del 1969, n. 174 del 1972, n. 127 del 1977, n. 488 del 1991, nn. 49, 206 e 232 del 1994, nn. 54 e 152 del 1996,
n. 381 del 1997, n. 325 del 1998 e n. 221 del 2005).
Sulla base di tali indicazioni, non può non destare serie perplessità la previsione del comma 9 dell'art. 31, secondo cui la decisione di devolvere ad arbitri la definizione di
eventuali controversie può essere assunta non solo in costanza di rapporto allorché insorga la controversia, ma anche nel momento della stipulazione del contratto, attraverso
l'inserimento di apposita clausola compromissoria: la fase della costituzione del rapporto è infatti il momento nel quale massima è la condizione di debolezza della parte che offre la
prestazione di lavoro.
Del resto l'esigenza di verificare che la volontà delle parti di devolvere ad arbitri le controversie sia "effettiva" risulta dalla stessa formulazione del comma 9, che affida tale
accertamento agli organi di certificazione di cui all'art. 76 del citato decreto legislativo n. 276 del 2003. Garanzia che peraltro non appare sufficiente, perché tali organi - anche a
prescindere dalle incertezze sull'ambito dei relativi poteri, che scontano più generali difficoltà di "acclimatamento" dell'istituto - non potrebbero che prendere atto della volontà
dichiarata dal lavoratore, una volta che sia stata confermata in una fase che è pur sempre costitutiva del rapporto e nella quale permane pertanto una ovvia condizione di debolezza.
Ulteriori motivi di perplessità discendono dalla circostanza che, ai sensi della nuova formulazione dell'art. 412 del codice di procedura civile contenuta nel comma 5 dell'art. 31
(disposizione espressamente richiamata dal comma 9 dello stesso articolo) la clausola compromissoria può ricomprendere anche la "richiesta di decidere secondo equità, nel
rispetto dei principi generali dell'ordinamento".
Come è noto, nell'arbitrato di equità la controversia può essere risolta in deroga alle disposizioni di legge: si incide in tal modo sulla stessa disciplina sostanziale del rapporto di
lavoro, rendendola estremamente flessibile anche al livello del rapporto individuale. Né può costituire garanzia sufficiente il generico richiamo del rispetto dei principi generali
dell'ordinamento, che non appare come tale idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di diritti indisponibili, al di là di quelli costituzionalmente garantiti; e comunque un aspetto
così delicato non può essere affidato a contrastanti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, suscettibili di alimentare contenziosi che la legge si propone invece di
evitare. Perplessità ulteriori suscita la estensione della possibilità di ricorrere a tale tipo di arbitrato anche in materia di pubblico impiego: in tal caso è particolarmente evidente la
necessità di chiarire se ed a quali norme si possa derogare senza ledere i princìpi di buon andamento, trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa sanciti dall'art. 97 della
Costituzione.
Del resto un arbitrato di equità può svolgere un ruolo apprezzabile ed utile solo a patto di muoversi all'interno di uno spazio significativo ma circoscritto in limiti certi e condivisi. In
sostanza l'obiettivo che si intende perseguire è quello di una incisiva modifica della disciplina sostanziale del rapporto di lavoro, che si è finora prevalentemente basata su
normative inderogabili o comunque disponibili esclusivamente in sede di contrattazione collettiva. E in effetti l'esigenza di una maggiore flessibilità risponde a sollecitazioni da
tempo provenienti dal mondo dell'imprenditoria, alle quali le organizzazioni sindacali hanno mostrato responsabile attenzione guardando anche alla competitività del sistema
produttivo nel mercato globale. Si tratta pertanto di un intendimento riformatore certamente percorribile, ma che deve essere esplicitato e precisato, non potendo essere
semplicemente presupposto o affidato in misura largamente prevalente a meccanismi di conciliazione e risoluzione equitativa delle controversie, assecondando una discutibile
linea di intervento legislativo - basato sugli istituti processuali piuttosto e prima che su quelli sostanziali - di cui l'esperienza applicativa mostra tutti i limiti.
Il problema che si pone è dunque quello di definire - nelle sedi dovute e in primo luogo nel Parlamento - in modo puntuale modalità, tempi e limiti che rendano il ricorso all'arbitrato -
nell'ambito del rapporto di lavoro - coerente con la necessità di garantire l'effettiva volontarietà della clausola compromissoria e una adeguata tutela dei diritti più rilevanti del
lavoratore (da quelli costituzionalmente garantiti agli altri che si ritengano ugualmente non negoziabili). Si tratta cioè di procedere ad adeguamenti normativi che vanno al di là della
questione, pur rilevante, delle garanzie apprestate nei confronti del licenziamento dall'art.18 dello statuto dei lavoratori.
A quest'ultimo proposito lo scorso 11 marzo la maggior parte delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e delle imprese si è impegnata a definire accordi interconfederali che
escludano l'inserimento nella clausola compromissoria delle controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro ed il Ministro del lavoro e delle politiche sociali si è a sua
volta impegnato a conformarsi a tale orientamento negli atti di propria competenza. Ma pur apprezzando il significato e il valore di tali impegni, decisivo resta il tema di un attento
equilibrio tra legislazione, contrattazione collettiva e contratto individuale. Solo il legislatore può e deve stabilire le condizioni perché possa considerarsi "effettiva" la volontà delle parti
di ricorrere all'arbitrato; e solo esso può e deve stabilire quali siano i diritti del lavoratore da tutelare con norme imperative di legge e quali normative invece demandare alla
contrattazione collettiva. A quest'ultima, nei diversi livelli in cui si articola, può inoltre utilmente affidarsi la chiara individuazione di spazi di regolamentazione integrativa o in
deroga per negoziazioni individuali adeguatamente assistite così come per la definizione equitativa delle controversie che insorgano in tali ambiti.
Si avvierebbe in tal modo un processo concertato, ed insieme ispirato ad un opportuno gradualismo, attraverso il quale ripristinare quella certezza del diritto che è condizione
essenziale nella disciplina dei rapporti di lavoro per garantire una efficace tutela del contraente debole e una effettiva riduzione del contenzioso in un contesto generale di
serena evoluzione delle relazioni sindacali.
Non sembra invece coerente con i princìpi generali dell'ordinamento e con la stessa impostazione del comma 9 in esame, che consente di pattuire clausole compromissorie
solo ove ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro, il prevedere un intervento suppletivo del Ministro - di cui tra l'altro non si stabilisce
espressamente la natura regolamentare né si delimitano i contenuti - che dovrebbe consentire comunque, anche in assenza dei predetti accordi, entro 12 mesi dalla data di
entrata in vigore della legge tale possibilità, stabilendone le modalità di attuazione e di piena operatività: suscita infatti serie perplessità una così ampia delegificazione con
modalità che non risultano in linea con le previsioni dell'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400.
Al di là delle osservazioni fin qui svolte a proposito dell'articolo 31, è da sottolineare l'opportunità di una riflessione anche su disposizioni in qualche modo connesse - presenti
negli articoli 30, 32 e 50 - che riguardano gli stessi giudizi in corso e che oltretutto rischiano, così come sono formulate, di prestarsi a seri dubbi interpretativi e a potenziali
contenziosi.
2. Secondo l'articolo 20 della legge, l'articolo 2, lettera b), della legge 12 febbraio 1955, n 51, recante delega al Governo per l'emanazione di norme per l'igiene del lavoro, si
interpreta nel senso che l'applicazione della legge delega è esclusa non soltanto - come espressamente recita la lettera b) dell'articolo 2 - per "il lavoro a bordo delle navi mercantili
e a bordo degli aeromobili", ma anche per "il lavoro a bordo del naviglio di Stato, fatto salvo il diritto del lavoratore al risarcimento del danno eventualmente subito".
Dai lavori parlamentari emerge che con detto articolo 20 si è inteso evitare che alle morti o alle lesioni subite dal personale imbarcato su navigli militari e cagionate dal contatto con
l'amianto, possano continuare ad applicarsi - come invece sta accadendo in procedimenti attualmente pendenti davanti ad autorità giudiziarie - le sanzioni penali stabilite dal DPR
19 marzo 1956, n. 303, che disciplina l'applicazione di tali sanzioni, escludendole unicamente nei casi di morti o lesioni subite da personale imbarcato su navi mercantili.
Si ricorda altresì che in materia di tutela della salute e della sicurezza del lavoro, oggi disciplinata dal decreto legislativo n. 81 del 2008, sono previste sanzioni per la
inosservanza delle norme in tema di protezione dai rischi per esposizione ad amianto in tutti i settori di attività, pubblici e privati, sia pure con i necessari adattamenti, con riguardo
in particolare alle forze armate, peraltro non ancora definiti.
Al di là degli aspetti strettamente di merito, occorre rilevare innanzitutto che l'articolo 20 in esame non esplicita alcuno dei possibili significati dell'articolo 2, lettera b), della legge del
1955 e quindi non interpreta ma apporta a tale disposizione una evidente modificazione integrativa. La norma incide, inoltre, su una legge delega che ha già esaurito la sua
funzione dopo l'adozione del DPR attuativo n. 303 del 1956, senza invece intervenire su di esso, risultando di fatto inapplicabile e priva di effetti.
L'articolo 20 presenta inoltre profili problematici anche nella parte - in sé largamente condivisibile - che riguarda la "salvezza" del diritto del lavoratore al risarcimento dei danni
eventualmente subiti. In assenza di disposizioni specifiche - non rinvenibili nella legge - che pongano a carico dello Stato un obbligo di indennizzo, il risarcimento del danno
ingiusto è possibile esclusivamente in presenza di un "fatto doloso o colposo" addebitabile a un soggetto individuato (art. 2043 del codice civile). Qualora la efficacia della norma
generatrice di responsabilità sia fatta cessare, con la conseguente non punibilità delle lesioni o delle morti cagionate su navigli di Stato, non è infatti più possibile individuare il
soggetto giuridicamente obbligato e configurare ipotesi di "dolo o colpa" nella determinazione del danno.
Per conseguire in modo da un lato tecnicamente corretto ed efficace, e dall'altro non esposto a possibili censure di illegittimità costituzionale, le finalità che la disposizione in
esame si propone, appare quindi necessario escludere la responsabilità penale attualmente prevista per i soggetti responsabili di alcune categorie di navigli, in linea del
resto con gli adattamenti previsti dal citato testo unico n. 81 del 2008, e prevedere, come già accade per altre infermità conseguenti ad attività di servizio, un autonomo titolo per la
corresponsione di indennizzi per i danni arrecati alla salute dei lavoratori.
Per i motivi innanzi illustrati, chiedo alle Camere - a norma dell'articolo 74, primo comma, della Costituzione - una nuova deliberazione in ordine alla legge a me trasmessa il 3
marzo 2010".

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