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Lo Stato Sociale e l’Europa di Nicola Nicolosi
9.04.2010

Lo Stato Sociale e l’Europa di Nicola Nicolosi
La UE si è data una strategia continentale fin dal suo inizio, quando 6 Paesi decisero di uscire assieme dalla sofferenza della II^ guerra mondiale, attraverso successive fasi sui temi economico-commerciali, sul mercato unico, sulla moneta unica, sulla politica agricola, sulla politica di coesione e sulla concorrenza.
Sui temi sociali è difficile sostenere che esiste un approccio strategico segnato dalla volontà politica di aver un unico grande disegno.
In Europa convivono diversi modelli sociali. Ogni Paese ha un suo modello di riferimento, frutto della storia politica, economica, sociale, culturale delle singole nazioni. A differenza di altre citate questioni che hanno una dimensione europea, lo Stato Sociale è di competenze nazionale e le istituzioni sovranazionali non hanno titolarità su questi temi. Si può evincere questo ragionamento dalla quantità di spesa per le politiche sociali sostenute dell’UE, che sono considerate piccola frazione in rapporto a ciò che le nazioni spendono per sostenere il welfare nei singoli Paesi.
L’Europa ha un ruolo regolativo e non una funzione redistributiva. Lo stesso Fondo Sociale Europeo (FSE) ha una limitata dotazione, però anch’essa utile per finanziare progetti. Tuttavia la politica sociale è stata inserita nei trattati come intervento importante. Basti ricordare il Trattato di Istituzione della CECA nel 1951, su carbone e acciaio, che conteneva provvedimenti contro il dumping sociale, in riferimento alla concorrenza sleale sull’uso dei salari da parte delle imprese. Così come i primi riferimenti alle condizioni di lavoro, all’incremento dell’occupazione, o al miglioramento della vita.
Il Trattato di Roma del 1957 che istituisce la Comunità Economica Europea (CEE), ha tra i suoi obiettivi alcuni temi di politica sociale di grande rilevanza; dalla libera circolazione dei lavoratori alla cooperazione tra gli Stati membri su occupazione, norme sul lavoro, formazione professionale, sicurezza sociale, prevenzione degli infortuni, igiene sul lavoro, diritto di associazione e di contrattazione collettiva, uguaglianza di trattamento salariale tra uomini e donne, condizione di vita di lavoro. Tutte scelte politicamente rilevanti ma con conseguenze reali molto limitate.
Cosciente di questi ritardi, il Consiglio d’Europa, nel 1961 istituì la Carta Sociale come bisogno di rilancio della questione sociale. Anche questo tentativo andò a vuoto, annullato dal boom economico degli anni ’60, con crescita tra il 3 e il 6%, con l’occupazione alta e la disoccupazione che toccava lo 0,8% in Germania e il 6% in Italia, ancora fortemente presa con la questione meridionale.
In questi anni le politiche sociali europee sono state accantonate. Si è sperato che la crescita economica portando benessere avrebbe risolto o affrontato le diseguaglianze salariali e sociali. Ancora una volta le virtù terapeutiche del libero mercato sarebbero intervenute per dare risposte ai problemi di equità sociale. L’Europa si caratterizzava per le iniziativa a sostegno del mercato comune.
Mentre si sviluppavano accordi bilaterali tra gli Stati membri della CEE sulla previdenza sociale dei lavoratori all’estero, sulla cumulabilità e portabilità dei contribuenti pensionistici. Nel 1969 i sei Capi di Governo della CEE, visti i risultati delle politiche sociali, inconcludenti, inclusero la politica sociale nell’agenda comunitaria per gli anni settanta.
Nel vertice di Parigi del 1974, su proposta della Commissione, venne deciso di dare inizio al Primo programma di azione sociale. Era il primo tentativo della CEE di dare un quadro generale e coerente con questi obiettivi:
1. il raggiungimento della piena occupazione;
2. il miglioramento delle condizioni di vita di lavoro;
3. il coinvolgimento delle parti sociali nelle decisioni della C. E.
Il cambiamento impresso era necessitato da quanto stava avvenendo negli anni ’70. I processi di ristrutturazione del sistema produttivo, seguiti all’avvio del pensiero neoliberista, le delocalizzazioni, le grandi fabbriche cominciarono a chiudere.
La conseguenza è stata la crescita della disoccupazione: nel 1973 riguardava 2,3 milioni di persone, nel 1980 erano più di 7 milioni. A causa della crisi economica di quegli anni, dovuta allo shock petrolifero e alle speculazioni sulle monete nazionali, le condizioni materiali dei lavoratori peggiorarono drammaticamente, con tensioni sociali in Italia e in altri Paesi in Europa.
In questi stessi anni la CEE assunse iniziative utilizzando il fondo sociale europeo (FSE) in risposta alla crisi, finanziando progetti che provvedessero alla formazione di lavoratori espulsi dai processi produttivi o da ricollocare, sostenendo alcune regioni svantaggiate o gruppi di lavoratori migranti, giovani disoccupati, donne, disabili. Venne quadruplicato il FSE alla fine degli anni ’70. Ne usufruirono Irlanda, Grecia, Sud Italia. E’ con la presidenza della Commissione Europea di Jacques Delors che si ebbe un vero impulso della dimensione sociale europea.
La costruzione europea non poteva limitarsi solo al mercato unificato, serviva un grande progetto di coesione sociale. Le organizzazioni sociali dei lavoratori (CES) e degli imprenditori (allora UNICE, oggi BUSINESSEUROPE) furono chiamate al “dialogo sociale”.
Alla fine degli anni ’80 gli Stati membri adottarono la “Carta Comunitaria dei Diritti Sociali Fondamentali dei lavoratori”. I principi che caratterizzavano la “CARTA” erano: la coesione economica e sociale, priorità assoluta delle politiche di crescita dell’occupazione, cooperazione e promozione del dialogo tra imprenditori e lavoratori, costituzione di un patrimonio di diritti salariali per tutti i cittadini, miglioramento delle condizioni di lavoro.
La Gran Bretagna, da poco entrata in Europa, non solo non firmerà la Carta, ma avrebbe posto il veto durante i negoziati che portano al Trattato di Maastricht, facendo escludere il capitolo sociale. Sarà firmato a parte dagli altri Paesi con un protocollo separato. Il ruolo della Gran Bretagna nella Comunità Europea, prima e successivamente nell’Unione è sempre stato problematico, ha sempre chiesto l’applicazione degli opt-out (deroghe) su temi importanti quali il Protocollo sociale, l’adozione del voto a maggioranza qualificata, l’orario di lavoro settimanale ecc…..
Spesso mi sono interrogato sulla bontà dell’Europeismo della Gran Bretagna!
Senza alcun dubbio Jacques Delors ha dato una forte spinta positiva al concetto di stato sociale: Libro Bianco del 1993 su crescita, competitività e occupazione marcò una campagna propositiva dell’UE contro la disoccupazione; da quel momento questa priorità sarà inserita nelle politiche dell’UE. Nel 1997 il Consiglio europeo speciale, riunito in Lussemburgo lanciò la Strategia europea per l’occupazione (SEO), gli Stati si impegnarono a raggiungere un certo numero di obiettivi. Occupabilità, imprenditorialità, adattabilità, pari opportunità: questi quattro elementi rappresentavano una novità dell’UE su questioni che erano di pertinenza degli Stati Nazionali.
La cultura neoliberista influenza anche l’Unione Europea, la flessibilizzazione del mercato del lavoro, richiesta dagli imprenditori, ha un solo scopo: creare precarietà! Ciò vale anche per il concetto di “modernizzazione” e di “nuovi tipi di contratti di lavoro”.
Il Trattato di Amsterdam del 1997 riconferma ancora che il tema occupazione rimane nelle decisioni dei singoli Stati, ma si rafforza il ruolo della comunità nella strategia coordinata per l’occupazione con l’istituzione di uno specifico Comitato.
Nel 2000 il Consiglio Europeo vara la Strategia di Lisbona; nell’arco di 10 anni, spinta dalla crescita economica l’Europa doveva diventare l’economia della conoscenza più competitiva al mondo, mantenendo un buon livello di coesione sociale, di incremento dell’occupazione con particolare riferimento all’occupazione femminile, dei giovani. La Strategia di Lisbona è stata ambiziosa ed è fallita anche per l’egoismo degli imprenditori e degli attori politici.
In questo ultimo decennio i disoccupati nell’Europa a 27, anche a causa della crisi economico-finanziaria del 2008, sono oltre 26 milioni. Il 48% degli occupati in UE hanno un contratto di lavoro variamente precario, circa 100 milioni di lavoratori. Circa 60 milioni di lavoratori svolgono attività lavorative con scarso contenuto professionale. Lo Stato di salute del welfare italiano rispetto a quello degli altri grandi Paesi europei presenta forti limiti di spesa e di impegno politico.
La spesa sociale italiana (2006) in rapporto al PIL è del 26,11% mentre in Francia e Germania supera il 31% e la Gran Bretagna investe nello stato sociale il 28%. La stessa media dell’Europa a 15, sempre per lo stesso anno è del 31,5%. Per il Sindacato europeo (CES) l’Europa sociale è sotto pressione e chiede che i governi non abbandonino prematuramente le politiche di stimolo all’economia. La crisi sociale nel 2010 potrebbe portare tensioni sociali, il livello della disoccupazione giovanile è allarmante: in alcuni Paesi, nel Mediterraneo e nell’Est Europa siamo vicini alla catastrofe. Continua l’azione sciagurata speculativa di chi ha prodotto la crisi, contro alcuni Stati membri e contro l’Europa.
Il caso della Grecia è un monito chiaro: servono regole per il mercato finanziario e bancario, e regole contro la manomissione di conti pubblici adottata dai governi con la complicità di chi deve controllare a Bruxelles.
La CES insiste, giustamente, che occorre dare priorità alla persone e non ai mercati; lo spirito del modello sociale europeo è basato su questo principio, la sicurezza sociale, la protezione delle persone, dell’assistenza sanitaria, l’istruzione scolastica, sono pilastri; i Governi non possono essere intimoriti dalle pressioni dei mercati.
L’Europa si è dotata nei mesi scorsi di una nuova strategia comunitaria EU 2020. Si vuole rendere l’economia europea prospera, competitiva. Incentrata sulla conoscenza, più verde, più partecipata. L’obiettivo è una economia sostenibile in grado di crescere e generare elevati livelli di occupazione e di progresso sociale. Un programma che sarà varato definitivamente nel mese di giugno prossimo. Saranno introdotte alcune iniziative tematiche: innovazione, educazione, società digitale, clima ed energia, competitività, occupazione e professionalità, lotta alla povertà. Per la Commissione Europea, gli obiettivi saranno nazionali, a differenza della Strategia di Lisbona, con un ruolo più attivo del Parlamento Europeo e un maggiore coinvolgimento dei singoli governi.
Tuttavia la CES, pur riconoscendo il bisogno di definire una strategia di politica industriale e di una riconversione verso l’economia verde, propone la selezione degli obiettivi e al momento la strategia 2020 non supera l’esame. Per il sindacato europeo non c’è simmetria di ruolo e potere tra i soggetti del dialogo sociale, Governo, imprenditori, rappresentanti dei lavoratori. Serve un rilancio delle relazioni sindacali e industriali; le politiche sociali non possono essere una variabile dipendente della crescita economica, così come è intesa nella strategia 2020. Inoltre si ripropone il concetto di flessicurezza già abbondantemente contrastato nel 2008. Il piano educazione è limitato al rafforzamento del programma Erasmus e non interviene a favore della formazione lungo tutto l’arco della vita. Resta il problema occupazione dei giovani e delle donne. C’è un orientamento generale di incremento senza obiettivi quantitativi.
Infine la Commissione rilancia il Piano di Stabilità che deve essere realizzato entro il 2013. La grave crisi economica, le risorse pubbliche destinate a salvare banche e finanziarie senza alcun ritorno economico, producono il rischio che il rientro dentro gli obiettivi del Patto di Stabilità, venga pagato con la riduzione della spesa pubblica, con costi sociali pagati dai soggetti più deboli. Lo scenario in Europa per il mondo del lavoro è abbastanza critico. La politica sociale è debole, resta spesso come volontà dell’animo. Si scontra con la ragione economica. Sono gli Stati membri che agiscono individualmente dentro i confini di pertinenza. L’Europa è assente. Si corre il rischio di soluzioni dal vago sapore nazionale.
Dalla crisi non si esce da soli; serve una politica economica e sociale che abbia la forza di sostenere uguaglianza, redistribuzione, un fisco equo basato sulla progressività, pari opportunità, politiche ambientali. Con più Europa sociale e meno Europa dei mercati.

Nicola Nicolosi
Segreteria Nazionale Cgil

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