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Quale lotta al terrorismo ?
19.09.2003

QUALE LOTTA AL TERRORISMO?
Uccisioni e massacri in Palestina ed in Israele, guerriglia e terrorismo in Iraq ed in Afghanistan, attentati dinamitardi in varie parti del mondo, americani che continuano a morire nei territori occupati ed americani che vivono con terrore sul suolo patrio dove è peraltro in atto una progressiva compressione di diritti civili e garanzie democratiche che sembravano conquiste definitivamente acquisite, crescente insicurezza in Europa, indebolimento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU chiamato in causa solo per avallare una guerra non condivisa con l’invio di contingenti militari sotto comando statunitense in aperta violazione dello Statuto delle Nazioni Unite: una stagione veramente disastrosa resa ancora più cupa da una crisi dell’economia chiaramente strutturale che sta aggravando squilibri e povertà nell’intero pianeta.

Come si fa a non capire che il terrorismo islamico non è vincibile con le guerre e le repressioni indiscriminate perché è sostenuto da un massiccio consenso di popolazioni povere e disperate che lo considerano il solo strumento di lotta capace di contrastare efficacemente la soverchiante forza bellica dei loro nemici? Come non convincersi che la via maestra per combattere il terrorismo è quella, insieme ad intelligenti misure di investigazione e di sicurezza, di isolarlo eliminando le ragioni che alimentano il seguito di cui gode? Come è possibile non rendersi conto che tale consenso trae origine, ben oltre i confini del fondamentalismo religioso, dalla radicata e diffusa determinazione del mondo arabo-musulmano di opporsi agli asservimenti economici prodotti dalla globalizzazione neoliberista e ai tentativi di omologazione al modello di vita e di convivenza dominante in Occidente? Quale nefasta cortina fumogena impedisce a Bush ed ai suoi servizievoli “amici” di vedere nell’islamismo una civiltà con precisi e forti caratteri non solo religiosi ma anche culturali, sociali e politici e, come tale, non addomesticabile col ricorso a strumenti di pressione economica e militare che possono avere una logica, per quanto discutibile, solo nei rapporti tra stati? E quale ottusità politica può far ritenere alla Casa Bianca che la “sua” democrazia sia esportabile in Iraq con bombe e carri armati e far pensare ad Israele di poter stroncare la resistenza palestinese con l’espulsione di Arafat e con raid missilistici che seminano distruzione e morte per uccidere questo o quel capo delle tante organizzazioni terroristiche?

Snobbando autorevoli avvertimenti ricevuti prima delle ultime guerre, disattendendo le pressioni del grande movimento internazionale per la pace e la tutela dei diritti umani ed ignorando l’eloquenza dei fatti che ogni giorno denuncia l’enormità degli errori commessi, Bush continua a camminare per la malinconica strada intrapresa portando avanti una politica contro il terrorismo che in realtà lo rafforza, intessuta come è di patriottarde ed irritanti esibizioni di muscoli, di arroganti pressioni politiche, di più o meno velati ricatti economici e di minacce di nuove guerre che si annunciano disastrose e controproducenti come lo sono state quelle già sperimentate che sono servite solo ad insediare nei territori occupati governi-fantoccio squalificati e fallimentari.

Di fronte a questo desolante scenario nessun governo occidentale, neppure tra quelli contrari all’intervento militare in Iraq, che sostenga la necessità e l’urgenza di un intervento [doveroso a termini di statuto] del Consiglio di Sicurezza dell’ONU con l’invio in Palestina di una forza di interposizione per fermare il reciproco massacro, nessun governo che chieda il ritiro delle forze occupanti dall’Iraq con la gestione da parte dell’ONU dell’attuale fase di transizione verso un governo realmente scelto dal popolo iracheno, nessuna aperta critica all’impianto della politica estera americana e nessuna proposta di segno alternativo. Certo, in Europa insieme ai vassallaggi di Berlusconi e di Aznar vi sono anche riserve e dissensi sulla politica statunitense ma tutti allo stato latente o coperti tra una spessa coltre di prudenza ed affievoliti da diffusi timori reverenziali. E’ l’eterno destino dei poteri imperiali che si fanno contro ogni buon senso verità e legge, che condizionano ed intimoriscono le voci critiche, che sbagliano e perseverano nell’errore per non contraddire se stessi.

In una tale situazione non c’è dubbio che le forze più responsabili ed avvertite presenti negli schieramenti partitici del nostro come degli altri paesi occidentali vanno incoraggiate e sostenute per correggere il correggibile e per preparare una svolta radicale, non certo a portata di mano, in direzione della “globalizzazione dei diritti”, della solidarietà sociale e della pace. Ma è di tutta evidenza che la politica partitica ed istituzionale, nelle sue possibili espressioni maggioritarie, non può oggi da sola operare la necessaria inversione di marcia perché fiaccata dall’imperante cultura liberista nella tensione progettuale, sospinta verso modelli e metodi avulsi dalla partecipazione democratica e fortemente condizionata dal preponderante potere economico. Questa politica ha bisogno di essere aiutata a ritrovare se stessa da quel movimento per la pace e per i diritti umani che costituisce la vera novità e la grande speranza degli ultimi anni. Quel movimento che sullo scenario internazionale sta costruendo una “resistenza” disarmata agli arbitrii e alle ingiustizie e che sta riproponendo i valori di solidarietà, di uguaglianza e di democrazia: una democrazia “vera” e sostanziale che non può essere imposta con la forza né esportata con le armi ma va costruita giorno per giorno, come diceva un grande “moderato” ed un grande artefice della nostra ricostruzione postbellica, dentro di noi contro ogni istinto alla violenza e fuori di noi col metodo costante della libertà.

Brindisi, 12 settembre 2003

Michele DI SCHIENA

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