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Donne e lavoro: una corretta lettura dei dati Istat
4.06.2010

Donne e lavoro: una corretta lettura dei dati Istat
Confronto con le interpretazioni date dal Ministero del Lavoro
Di Ornella Cilona e Serena Sorrentino
Un’accurata analisi dei dati ISTAT, relativi al tasso di occupazione nel 2009,
fornisce utili spunti di riflessione e smentisce le enfatiche dichiarazioni del Ministero
del Lavoro su una sostanziale tenuta dell’occupazione femminile in tempi di crisi.
Sono tre gli aspetti da rilevare. In primo luogo, il tasso di occupazione
femminile a livello nazionale è stato lo scorso anno pari al 46,4%, vale a dire al di
sotto di 13,6 punti percentuali rispetto all’obiettivo comunitario, fissato dalla strategia
di Lisbona, che prevedeva una percentuale del 60% di donne con un lavoro entro il
2010. Su scala regionale, solo due regioni del Nord raggiungono l’obiettivo del 60%: si
tratta di Trentino Alto Adige (60%) ed Emilia Romagna (61,5%). Ancora più
sconfortante è il dato riguardante il tasso di occupazione delle donne nel Mezzogiorno,
pari al 30,6%. Tre regioni del Sud, inoltre, non arrivano nemmeno al 30%: si tratta
della Campania (26,3%), della Sicilia (29,1%) e della Puglia (29,2%). Va considerata
oltretutto la percentuale di donne meridionali che sono impiegate nel sommerso, la
quale testimonia che le politiche sin qui intraprese per emersione, regolarizzazione,
maggiore occupazione, si sono rilevate nella maggior parte dei casi inefficaci come per
il ricorso al contratto di inserimento, che oggi il Governo ripropone, mentre su
politiche che avevano dimostrato un impatto positivo, quali il credito d’imposta, non ci
sono misure di sostegno.
In secondo luogo, il Ministero del Lavoro pone l’accento sulla “performance
migliore” dell’occupazione femminile rispetto a quella maschile durante la recessione,
perché lo scorso anno, rispetto al 2008, la percentuale delle donne con un posto è
calata in Italia dello 0,8% mentre quella maschile è diminuita dell’1,6%. Tuttavia,
occorre considerare non solo che in ben quattro regioni (Piemonte, Toscana, Umbria e
Abruzzo) il tasso di occupazione femminile è sceso in misura maggiore rispetto a
quello maschile, ma anche il fatto che la lettura dei dati che si riferiscono al tasso di
disoccupazione per genere dimostra quanto sia errata la conclusione del Ministero. Nel
2009, infatti, la percentuale delle donne senza un lavoro è stata del 9,3%, con un
incremento dello 0,7% rispetto all’anno precedente. Quella maschile si è fermata al
6,8%, nonostante un aumento dell’1,3% rispetto al 2008. Non solo, dunque, il tasso
di occupazione femminile è sensibilmente più basso rispetto a quello maschile nel
nostro Paese, ma anche il tasso di disoccupazione è maggiore del 2,5% fra le donne
nei confronti degli uomini. E non basta: analizzando i dati relativi all’incidenza sul
totale del numero di occupati per genere e settori, risulta che il lavoro delle donne è
stato pesantemente colpito non solo nel settore industriale (-7% rispetto al 2008), che
senza dubbio ha risentito della crisi molto più di altri, ma anche nell’agricoltura (-
7,9%) e nel commercio (-3,3%).
Un terzo e ultimo elemento da segnalare che risulta dalla lettura dei dati
dell’Istat riguarda la permanenza delle donne nei contratti atipici, che ha effetti
devastanti sia sui salari, sia sulle tutele. Nel 2009, la percentuale degli uomini
occupati a tempo parziale è diminuita del 5,6% rispetto all’anno precedente, tanto che
oggi sono 702mila coloro che hanno questo contratto. Tale rilevante riduzione è da
attribuirsi al fatto che le aziende hanno iniziato a licenziare per primi i lavoratori con
contratti di collaborazione e a tempo parziale. Nello stesso periodo, la percentuale
delle donne part time è diminuita di appena lo 0,9% (oggi sono oltre due milioni e
mezzo quelle che hanno questo contratto). Il Ministero del Lavoro parla di una
“maggiore flessibilità delle donne”, che “utilizzano più rapporti di lavoro all’interno
dello stesso trimestre”. Va messo in evidenza che si tratta di un dato non positivo ma
negativo: la flessibilità è troppo spesso non voluta, soprattutto pensando che l’utilizzo
di più rapporti di lavoro nell’arco di appena tre mesi significa che le donne sono
costrette non di rado a passare da un contratto atipico a un altro.
Non va, inoltre, sottovalutato un altro elemento di riflessione. Il Ministero del
Lavoro rileva, infatti, che dai dati Istat emerge l’elevato aumento sia delle violazioni
amministrative in ordine alla tutela economica delle lavoratrici madri (+67%), sia
delle ipotesi di reato in ordine alla tutela fisica delle lavoratrici madri (+155%).
In definitiva, il Ministero del Lavoro “dimentica” di segnalare un dato
preoccupante riguardo il mercato del lavoro femminile: la crescita del numero di
donne inattive. Secondo le cifre rese note dall’Istat relativamente a marzo 2010, oggi
in Italia ci sono nove milioni e 679mila donne che non lavorano e non studiano, con
un incremento dell’1,1% rispetto a marzo del 2009. Il tasso di inattività, che
complessivamente è pari al 37,8% fra i 15 e i 64 anni, sale, se si considerano solo le
donne, al 45,8%. Come mostra una ricerca dell’Isfol pubblicata agli inizi di maggio, la
metà delle donne inattive sarebbe disponibile a occuparsi, se fossero loro offerti
servizi adeguati di cura e misure efficaci di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Senza contare che, nell’analisi prodotta dal Ministero, non si tengono in
considerazione altri dati fortemente indicativi elaborati dallo stesso Istat : nel corso
del 2009, infatti secondo l’Istat, la discesa dell’occupazione femminile interessa tutte
le figure presenti sul mercato del lavoro: le dipendenti a termine, le collaboratrici, le
autonome, fino a coinvolgere le occupate a tempo indeterminato. L’occupazione a
termine si riduce su base annua in tutti i trimestri (-97.000 nel I; -94.000 nel II e -
78.000 nel III trimestre); a tale discesa si accompagna quella delle collaboratrici la cui
flessione è particolarmente sensibile nella prima parte del 2009.
Tra gli indipendenti il calo dell’occupazione è del 7,3% per gli uomini e del 6,3%
per le donne. Al pari della componente maschile anche quella femminile registra
riduzioni significative concentrate tra gli indipendenti nel settore delle attività
commerciali e artigianali. Nel periodo più recente la caduta colpisce, come detto,
anche le lavoratrici con contratto a tempo indeterminato (-16.000 unità nel III
trimestre del 2009, in termini tendenziali), specie nelle piccole imprese.
Così come alla discesa delle posizioni lavorative full-time, si accompagna dalla
primavera quella dell’occupazione part-time ( III trimestre del 2009 arretra di 52.000
unità).
Non viene messo poi in alcun rilievo il dato sulle povertà : In Italia, su un totale
di 8.078.000 individui relativamente poveri nel 2008, 4.208.000 sono rappresentati da
donne, e ben il 61,4% delle povere si colloca nella classe di età attiva. ed ancora su
di 2.893.000 di persone assolutamente povere, 1.550.000 sono rappresentate da
donne (il 5,1% del totale delle donne).
Inoltre va rilevato che l’occupazione femminile, sebbene vedesse un tasso
tendenziale positivo, seppur con fluttuazioni, dal 1996 fino a tutto il 2008, con il
subentrare della crisi diminuisce dal I trimestre 2009 (-0,4% in termini tendenziali,
pari a – 42.000 unità) per aumentare nel III trimestre 09(-158.000 unità).
Malgrado la flessione del dato sull’occupazione femminile sia in percentuale
inferiore a quella maschile essa deriva dall’apporto del tasso d’occupazione delle
straniere che risente della crisi (quasi la metà del tasso di crescita del 08 ma pur
sempre +7,7% nel 09) ma in misura inferiore (si pensi ad esempio al fattore
“regolarizzazioni”) ed al fatto che l’occupazione femminile è prevalente in settori che
hanno risentito meno della crisi economica, così come su esposto.
Infine questa analisi del Ministero del Lavoro asettica ed asimmetrica dei dati a
disposizione, oltre a tendere a giustificare interventi sull’occupazione femminile che
puntano ad alleggerire il costo del lavoro con una riduzione drastica dei diritti
attraverso forme non regolamentate di flessibilità e il ricorso massivo ad elementi
deregolatori delle tutele normative e contrattuali consolidate ( contratti di inserimento,
lavoro accessorio ecc..), non evidenzia in alcun modo la relazione tra occupazione e
distribuzione territoriale dei servizi, welfare territoriale e peso della conciliazione sul
carico familiare, riproponendo gli indirizzi pienamente acclarati nel Libro Bianco sul
Welfare.
(maggio 2010)

fonte : cgil nazionale

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