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Il governo e le droghe: memoria zero
23.09.2003

Il governo e le droghe: memoria zero
La Legge sulle tossicodipendenze. Un po’ di storia e di antefatti
di Sergio Segio

Il governo, per iniziativa del vicepremier Fini e col sostegno del presidente della Camera Casini, ha rilanciato a Roma una strategia sulle droghe per niente nuova, dove eguale a zero risulta non già e non solo la tolleranza, quanto il buon senso e l’evidenza scientifica. È facile per tutti capire che sostenere l’eguale dannosità di droghe leggere e pesanti, infatti, è un insulto sia al primo che alla seconda. E che, dunque, in questo caso si è scelta la campagna ideologica, magari utile a porre in secondo piano le difficoltà economiche e la conseguente conflittualità sociale e sindacale destinata ad acutizzarsi, a discapito della valutazione pour cause, del merito specifico della questione droghe e dipendenze. Un problema certo di rilievo e con riflessi di sicuro dramma per molte persone e molte famiglie. Ma, proprio per questo, la campagna ideologica, la crociata repressiva, la semplificazione che mette sullo stesso piano uso e abuso, consumo e spaccio, hashish ed eroina, sono quanto di più sbagliato e controproducente si potesse immaginare di fare.
Purtroppo non c’è nulla di nuovo, e stupisce la mancanza di memoria al riguardo. L’attuale copione ne ricalca un altro, egualmente nato all’insegna dell’ossimoro recupero-repressione, cura-coazione, che ha prodotto nei primi anni Novanta tragiche conseguenze in termini di morte, sofferenze, diffusione dell’HIV, carcerazioni, massimizzazione dei danni per le persone tossicodipendenti e per i semplici consumatori di sostanze. Una delle poche differenze, forse, è che ora si vorrebbe istituire, oltre che la cura, anche il lavoro coatto. Una logica che culturalmente viene da lontano, dalla filosofia dei lager e dei gulag, ma, più vicino a noi, anche da quella di alcune comunità terapeutiche, votate più al business che non alla riabilitazione.
Si sa che il sonno della ragione e il prevalere delle ragioni ideologiche facilmente genera mostri. E se questo tipo di torpore colpisce la maggioranza di un Parlamento, il risultato, va da sé, è quello di una legge-mostro. È successo nel 1990 con la legge n. 162 sulle droghe, quantomeno riguardo alle sue parti più ottusamente repressive, condensate nella filosofia della punibilità del semplice consumo di sostanze e nella sua principale strumentazione: la “dose media giornaliera”.
La legge n. 162/1990, cosiddetta Jervolino-Vassalli (dai nomi della democristiana Rosa Russo Jervolino e del socialista Giuliano Vassalli, rispettivamente ex ministro degli Affari sociali e della Giustizia, allora ancora contemperata dalla Grazia), è del 26 giugno di 13 anni fa. La data non è casuale, essendo quella in cui ricorre la annuale Giornata mondiale contro la droga indetta delle Nazioni Unite. In quel frangente, l’allora presidente dei senatori socialisti, Fabio Fabbri, arrivò a minacciare le elezioni anticipate se il Parlamento non avesse approvato nei tempi dovuti la nuova legge. Ulteriore dettaglio che conferma il forte impianto ideologico, il carattere di legge-manifesto di questa normativa, poi riassunta nel Testo Unico delle leggi in materia di stupefacenti, promulgato con decreto del Presidente della Repubblica, n. 309 del 9 ottobre 1990.
Non è, dunque, meno casuale e di minor preoccupazione che, 13 anni dopo, l’attuale governo avesse nuovamente scelto in origine la data del 26 giugno per annunciare la revisione legislativa, che è stata nuovamente e con più determinazione rilanciata invece a Roma il 22 settembre, in occasione della V Conferenza mondiale sulle droghe.
Una revisione tesa a vanificare le positive modifiche prodotte sulle norme del 1990 dal referendum dell’aprile 1993, col quale vennero bocciate alcune parti della legge e, in particolare, l’architrave della “dose media giornaliera”. Era quella, infatti, il fondamento della legge-mostro partorita e imposta in particolare da PSI e DC (vigeva il VI governo Andreotti, composto da DC, PSI, PSDI, PRI, PLI). Una sorta di linea Maginot che si intese opporre al criterio della “modica quantità”, proprio della legge precedente, la n. 685 del 1975. Sino al 1990, infatti, era esclusa la punibilità per la detenzione di una “modica quantità” di sostanza finalizzata al consumo personale.
La legge 162 volle invece, programmaticamente, punire chiunque consumasse droghe. Così, il possesso di una quantità di sostanza inferiore alla dose media giornaliera (definita con apposite tabelle ministeriali in 100 milligrammi di principio attivo per l’eroina, 150 milligrammi per la cocaina, 1/2 grammo per l’hashish) comportava sanzioni amministrative (sospensione della patente, del passaporto, etc.). Al di sopra di quella soglia le sanzioni diventavano automaticamente penali (ma anche la reiterazione o l’inosservanza delle sanzioni amministrative comportava l’avvio al circuito penale).
La ratio, insomma, era di escludere ogni discrezionalità da parte della magistratura e delle forze dell’ordine nel valutare caso per caso se la droga fosse destinata all’uso personale o allo spaccio, e dunque di punire severamente anche il semplice consumo. Esattamente come è stato annunciato ieri da Fini. Una filosofia cupamente repressiva che trovò (e ancora trova) alfieri e gazzettieri anche in alcune comunità terapeutiche, che teorizzarono la necessità di «fare toccare il fondo» alle persone tossicodipendenti («L’unico modo per costringere il tossico a smettere è fare terra bruciata intorno a lui. Ai drogati deve essere proibito qualunque tipo di attività lavorativa»: così allora don Oreste Benzi, della comunità Giovanni XXIII di Rimini).
In realtà e nella pratica, ben prima di raggiungere questo “fondo” da cui eventualmente risalire, grazie a quella legge e a tale filosofia, molti morivano, si infettavano di AIDS o finivano in carcere, dove non di rado si suicidavano.
Dopo il varo della 162, il rigore punizionista colpì anche personaggi noti (Laura Antonelli, Patty Pravo, Marco Bassetti), arrestati o sottoposti a giudizio talvolta solo per un paio di spinelli. Nel luglio 1991, nel giro di pochi giorni, tre persone arrestate per droga si suicidarono in carcere. Tra di esse, Stefano Ghirelli: 18 anni appena compiuti, incensurato, portato nel carcere di Ivrea poiché trovato con 25 grammi di hashish, si impiccò dopo il rifiuto del giudice di concedergli la libertà provvisoria per “pericolosità sociale”.
Questi avvenimenti cominciarono a incrinare il muro dei sostenitori della legge, assieme al già sensibile aumento dei detenuti (il 31 dicembre 1990 i tossicodipendenti ufficialmente presenti in carcere erano 7.299, sei mesi dopo erano già saliti a 9.623 per arrivare a ben 14.818 il 31 dicembre 1992) e all’aumento delle morti (nel 1990, per la prima volta, il numero dei decessi per overdose superò le mille unità, arrivando a 1.161; l’anno seguente giunse a 1.383 e, nel 1992, a 1.217).
Claudio Martelli, allora ministro Guardasigilli nonché vicepresidente del Consiglio, si trovò a dover correre urgentemente ai ripari, specie dopo una sentenza della Corte costituzionale che, pur respingendo alcune eccezioni presentate da giudici di merito, invitava esplicitamente il legislatore a migliorare la legge e i giudici, se del caso, a non applicare rigidamente il criterio della dose media giornaliera. Si arrivò così al “decreto Martelli”, n. 247, che nell’agosto 1991 rese non più obbligatorio l’arresto qualora la sostanza rinvenuta superasse di poco la dose fissata dalle tabelle.
Un tampone che non risolse il problema. Alla vigilia del referendum abrogativo, promosso dal CORA (il Coordinamento antiproibizionista dei radicali) e fatto proprio anche da molte associazioni e comunità che in precedenza avevano costituito il Cartello “Educare, non punire”, il governo Amato, anche sulla base di un impegno preso con Marco Pannella, il 12 gennaio 1993 emanò un decreto che triplicava i limiti previsti per la dose media giornaliera.
Ma, al di là dei tardivi correttivi, il 18 aprile 1993 il 55% dei cittadini votanti bocciò la punibilità e la dose media, nonché un altro obbrobrio introdotto dalla 162: l’obbligo per i medici, in violazione di ogni deontologia, di segnalare i tossicomani alla polizia.
Da allora, non di meno, oltre 30.000 persone tossicodipendenti continuano a entrare in carcere ogni anno: per detenzione e spaccio, vero o presunto, nonché per altri reati connessi. Sui 55.670 presenti in carcere al 31 dicembre 2002, 21.922 erano detenuti per violazione dell’articolo 73 della legge sulle droghe, i tossicodipendenti risultavano 15.429, di cui solo 1.661 in trattamento metadonico. Come si sa, la situazione nelle prigioni è da tempo intollerabile. Il buon senso e quello di umanità suggerirebbero misure deflative, magari proprio a partire da una completa depenalizzazione delle condotte relative al consumo personale, dando finalmente così piena attuazione alla volontà popolare espressa nel 1993.
Viceversa, la volontà del governo - e in modo particolare di Alleanza nazionale, che già nell’aprile 2002 ha depositato al Senato il PDL n. 1322 - si indirizza in modo diametralmente opposto, per la reintroduzione della “dose media giornaliera” o “dose massima consentita” che dir si voglia. Se sbagliare è umano, perseverare è diabolico. In questo modo, le carceri, che già sono un dramma, rischiano di diventare un vero inferno. Oppure, un grande business. Così come alcune comunità terapeutiche, che saranno di fatto svincolate dal controllo pubblico. Come di nuovo dice oggi don Benzi (cfr. “La Repubblica”, 23 settembre), lo stato deve limitarsi a controllare i risultati, senza interessarsi dei metodi e senza limitare la «piena libertà creativa e inventiva» delle metodologie di recupero. In cosa si sia talvolta tradotta in alcune comunità quella libertà creativa ce lo raccontano le cronache giudiziarie del passato. Un passato che a volte ritorna. Come succede per i mostri.

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IPSE DIXIT

Spacciatore presunto
«Un consumatore, pur essendo sorpreso con una quantità superiore alla dose media giornaliera, se riesce a dimostrare che se ne serve per uso personale in quanto quella è la sua dose media, non verrà considerato uno spacciatore».
[Francesco De Lorenzo, ministro della Sanità, “La Repubblica”, 14 luglio 1990]

Tanti morti, legge buona
«L’aumento dei decessi non rappresenta certo una smentita della validità della legge, anzi secondo me ha il valore di una conferma».
[Rosa Russo Jervolino, ministro degli Affari sociali, “La Repubblica”, 8 febbraio 1991]

Resipiscenza/1
Non si tratta in alcun modo di varare una nuova legge - avverte subito il Guardasigilli - ma di arrivare a una «interpretazione autentica» di quella in vigore. Obiettivo, rimettere «alla valutazione del giudice anziché a rigidi automatismi la privazione della libertà personale nel caso in cui il possesso illecito di stupefacenti ecceda per una lieve entità il limite fissato dalla legge».
[Claudio Martelli, vicepresidente del Consiglio e ministro della Giustizia, “La Repubblica”, 2 agosto 1991]

Resipiscenza/2
«Se è maturo il momento per una riflessione collegiale sul problema droga, questa ben venga, senza però commettere l’errore di considerare scontato il passaggio tra la repressione e la liberalizzazione».
[Nicola Mancino, ministro dell’Interno, “La Repubblica”, 10 novembre 1992]

Resipiscenza/3
«Non siamo stati né io né la Democrazia cristiana a insistere perché chi consuma droga finisse in carcere. Anzi, il testo originario da me presentato non prevedeva questa misura. Poi altri partiti che voi ben sapete hanno insistito su quel punto».
[Rosa Russo Jervolino, “La Repubblica”, 10 novembre 1992]

Diaspora socialista/1
«Sarà stato un caso: ma non appena Craxi ha stabilito che il presidente del Consiglio è il leader del partito e che la segreteria presiede all’organizzazione, Amato ha cambiato la politica di Craxi sulla droga (…). Mettere i drogati in carcere vuol dire praticare a doppio titolo su di essi la tortura. Il provvedimento con cui Amato ha stabilito un accordo con Pannella è in primo luogo un giudizio sul carcere: ma in seconda linea esso stabilisce che il principio proibizionista non è più sentito come principio. Esiste un consenso sociale sul fatto che il proibizionismo non può essere imposto in forza di un principio morale accettato: e dar forma rigorosa al proibizionismo era l’intenzione della legge Jervolino-Vassalli, la legge di Craxi».
[Gianni Baget Bozzo, “La Repubblica”, 11 novembre 1992]

Diaspora socialista/2
«Io non ho tolto una gamba ad Amato. La mia dichiarazione è stata di grande disponibilità. Invece di fare polemiche sulla droga, bisogna acquisire dati di fatto (…). Probabilmente, comunque, la legge va modificata in più punti».
[Bettino Craxi, segretario PSI, “La Repubblica”, 11 novembre 1992]

Diaspora socialista/3
«Il consumo di droga è male, tuttavia è sbagliato che alla fine della trafila il tossicodipendente finisca in galera».
[Giuliano Amato, presidente del Consiglio, “La Repubblica”, 11 novembre 1992]

Irriducibili/1
«Amato paga la cambiale a Pannella, il cui appoggio al suo agonizzante governo viene scambiato con le modifiche varate dal Consiglio dei ministri».
[Maurizio Gasparri, deputato MSI, “La Repubblica”, 13 gennaio 1993]

Impuniti
«Ero favorevole alla Jervolino-Vassalli, ma l’abolizione del carcere va bene. Sono invece preoccupato sulla dose media giornaliera che, anche se triplicata, bisognerà rendere ancora più chiara e definita».
[Francesco Cardella, fondatore della comunità Saman, “La Repubblica”, 13 gennaio 1993]

Irriducibili/2
«Ai giovani dobbiamo far capire che non c’è la droga buona e quella cattiva (…). Dobbiamo avere il coraggio di usare una parola tabù e politicamente scorretta: repressione».
Gianfranco Fini, vicepresidente del Consiglio e leader di AN, “La Repubblica, 19 maggio 2003)


(Questo articolo in parte riprende quello pubblicato nel mensile “Fuoriluogo” del maggio 2003)

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