6.07.2010
Il G-20 e la riforma della Finanza in USA Nota a cura di Danilo Barbi e Beniamino Lapadula A fronte di un’Europa che continua a dividersi sulle proposte da mettere in campo, il presidente Barack Obama si è presentato all’appuntamento del G- 20 con un risultato concreto in mano, il Finacial Bill, un programma di riforma del sistema finanziario americano. La riforma USA La riforma della finanza discussa al Congresso USA questa settimana rappresenta – come sostenuto dal Presidente Obama – “una svolta storica per il settore finanziario”, un settore che negli ultimi 20 anni ha acquistato margini di libertà operativa pressoché totali. La sostanziale assenza di regole, la degenerazione e la deregolamentazione della finanza rappresentano l’altra faccia di quell’accentuazione delle disuguaglianze che ha portato alla disastrosa crisi finanziaria scoppiata nel 2008. È saltata, invece, nel corso del dibattito parlamentare la norma che istituiva un fondo anti-crac di circa 19 miliardi di euro che sarebbe dovuto essere finanziato con un’apposita tassa sul rischio a carico del sistema finanziario americano. In ogni caso, molte sono le regole presenti nella riforma. Tra i sette principali punti toccati dalla riforma (proprietary trading; i derivati; la regolazione finanziaria; la tutela degli investitori; la tutela dei consumatori; la tutela degli azionisti; la questione dei grandi istituti bancari too-big-tofail, ovvero “troppo grandi per fallire), il primo e più importante sembra essere quello ispirato dall’ex governatore della Federal Reserve Volker che impone severe restrizioni sulle attività speculative delle banche che nono possono investire più del 3% del loro capitale in hedge fund o private equity. Una mossa indirizzata a “normalizzare” l’attività delle banche verso più tranquilli core business. In alcuni casi, infatti, le partecipazioni troppo alte in fondi speculativi, unite all'uso folle della leva, avevano trasformato i tradizionali istituti finanziari in hedge fund puri. Molti gruppi finanziari saranno costretti a ridurre l’esposizione, alcuni a fare lo spin-off di questi business creando nuove società ad hoc. Il mercato dei derivati poi viene messo sotto il controllo delle autorità di regolazione e reso trasparente. Ad ogni modo, le operazioni su derivati devono essere scorporate dalle banche e affidate a filiali autonome per evitare che eventuali perdite possano colpire i depositanti e costringere lo Stato a interventi di salvataggio. Vengono, inoltre, rafforzati i poteri della FED, sia in materia di supervisione delle attività bancarie, che di difesa dei consumatori. Alla FED, infatti, risponderà “l’ufficio per la protezione dei consumatori”, una nuova Agenzia Federale che controllerà i prodotti finanziari complessi venduti, fino ad ora,anche ad investitori inesperti. La nuova Agenzia imporrà così ai broker di borsa nuovi controlli e nuove responsabilità verso i clienti. Alle compagnie che vendono particolari tipologie di strumenti finanziari complessi viene, inoltre, imposto l’obbligo di accollarsi parte del rischio. La nuova legge istituisce un consiglio di regulator che vigilerà sui rischi sistemici e lo autorizza a imporre restrizioni alle compagnie finanziarie di maggiori dimensioni. Le autorità di vigilanza potranno così smembrare in anticipo i colossi finanziari a rischio, riducendo le loro dimensioni e permettendo, nell’eventualità di crisi, che possano essere liquidati a costo zero per il contribuente. Un approccio simile è consigliato anche ai paesi membri dell’Europa, le cui banche devono poter essere controllate alla stessa stregua di quelle americane se si vuole dar seguito alla linea che ha imposto gli stress-test. Alla luce di quanto esposto, affinché la riforma USA non risulti – così com’è maturata – scarsamente efficace bisogna valorizzare il tentativo di dare una risposta concreta alla sfida mossa alla politica dalle enormi questioni poste dalla crisi finanziaria, a fronte della quale l’Europa si mostra invece cacofonica se non afasica, con l’eccezione del nuovo governo inglese che ha autonomamente deciso l’imposizione di una tassa sulle banche. Soluzione questa che può risultare interessante se connessa agli altri tentativi di dare una risposta alla crisi attraverso misure regolamentari condivise, quali quelle che si stanno discutendo nel Comitato di Basilea 3. L’esito del G-20 e le (non) decisioni europee Mentre l’Amministrazione USA si è presentata al vertice del G-20 forte della vittoria nella battaglia legislativa ingaggiata dalle lobby di Wall Street per rendere indolore la riforma, a livello globale si sono fatti solo timidi passi in avanti. In particolare, si è registrato la difficoltà dell’Europa che tarda ancora a decidere sulle nuove regole prudenziali. Il vertice di Toronto, pur non riuscendo a raggiungere un accordo sulla tassa globale sulle banche, si è impegnato ad introdurre nuove regole per limitare l’insorgere dei rischi sistemici. In occasione del prossimo G-20 che si terrà a Seul, si concluderà l’accordo sui nuovi parametri relativi al capitale e alla liquidità delle banche (il cosiddetto Basilea 3). Nel comunicato finale del G-20 è stato, inoltre, accolto il programma di riforma proposto dal Financial stability board presentato di M. Draghi. Si tratta di un programma fondato su quattro pilastri: 1) il rafforzamento dei requisiti patrimoniali e di liquidità delle banche; 2) la riduzione dell’azzardo morale da parte degli intermediari; 3) l’innovazione normativa per il mercato dei derivati; 4) il miglioramento delle strutture degli incentivi e della trasparenza del settore finanziario. Sul fronte dell’economia reale si è registrato l’esito più deludente. Permangono visioni diverse sull’exit strategy della crisi. Gli USA temono soprattutto la bassa crescita e chiedono all’Europa un impegno in tale direzione. L’Europa, anche perché più esposta rispetto alle reazioni dei mercati finanziari, a causa dell’assenza di una politica economica dell’Unione, spinge per un più rigido riequilibrio dei conti pubblici. Queste divaricazioni, secondo il Fondo Monetario internazionale mettono a rischio 30 milioni di posti di lavoro. Il compromesso raggiunto al G20 di Toronto registra questi approcci differenti, c’è l’impegno a dimezzare i deficit pubblici entro il 2013 e contemporaneamente l’impegno a sostenere la ripresa. Il testo finale del vertice di Toronto, comunque, include una dichiarazione che sottolinea “il rischio che i tagli di spesa sincronizzati danneggino la ripresa”. Questa elementare constatazione, secondo cui, se tutti i paesi dovessero frenare le spese si tornerebbe in recessione, sembra sfuggire all’Europa dominata dal rigore della Germania. L’economista P. Krugman dice: «spendere adesso che l’economia resta depressa e risparmiare dopo, quando ci sarà stata la ripresa, che ha di tanto difficile da capire?»1 Eppure la Cancelliera A. Merkel insiste sul consolidamento a lungo di tutti i bilanci statali (tagli, austerità , sacrifici). Esattamente il contrario di quanto il giorno prima aveva sollecitato il Presidente americano, chiedendo a tutti i principali paesi del mondo di non mettersi troppo presto a tagliare la spesa pubblica per evitare di strozzare sul nascere l’inizio della ripresa globale. L’UE in questo modo sembra destinata sempre più all’emarginazione. Il motore della crescita si sposta così più rapidamente di quanto previsto, verso i paesi emergenti. Le dinamiche destinate a contare saranno d’ora in vanti sempre più quelle tra USA, Cina, India e Brasile. Così come nel documento finale del G-20 si è preferito lasciare libero ogni paese di decidere in modo autonomo sulla bank tax – rinviando, con poco coraggio, a una linea più dura al prossimo summit di novembre a Seoul – allo stesso modo ciò che è emerso con forza è stato il ruolo dei BRIC (Brasile, Russia, Cina, India), che hanno pesato sullo stesso esito finale del G-20 attraverso una linea tesa prima di tutto all’espansione: non cedere a nessun atteggiamento protezionistico, non erigere barriere agli investimenti e agli scambi di beni e servizi, non imporre restrizioni. Tuttavia, scontando la mancata reazione dei mercati finanziari, l’incertezza sulla ripresa economica, che nel G-20 è stata definita ancora “fragile e diseguale” non vuole andare via. Di sicuro, con la sola riforma USA e con la spinta dei BRIC all’espansione non è possibile immaginare una svolta all’economia globale. L’Europa, tutta, ha un ruolo centrale nel risanamento dei cosiddetti global imbalances (squilibri globali). Tali squilibri sono stati fondati sugli avanzi commerciali di molti paesi asiatici (primo tra tutti, ovviamente, la Cina) rispetto agli USA. Per impedire un rivalutazione del proprio cambio che avrebbe nuociuto alle loro esportazioni – base della loro crescita – essi hanno reinvestito i crediti accumulati in buoni del Tesoro americani finanziando in tal modo il disavanzo estero americano. Europa e Giappone non hanno partecipato, se non marginalmente, al destino in seguito alla depressa domanda interna. Se ne è avvantaggiata però la Germania (che ha riconvertito il tessuto produttivo facendo leva proprio su una stagione di moderazione salariale) che esporta beni capitali in Asia, conseguendo forti attivi commerciali. 1 New York Times, 20/6/2010, P. Krugman, Now and Later (Adesso e dopo). Ecco perché l’euroausterity porta vantaggio prima di tutto alla Germania. Ed ecco perché la scelta del governo italiano di seguire la linea tedesca, considerando il nostro tessuto economico-produttivo e il nostro saldo negativo della bilancia commerciale, non è né adeguata a difendere la crescita e l’occupazione, né utile di conseguenza al risanamento dei conti pubblici. Tutt’oggi, i paesi dell’est asiatico restano pronti a sostenere il debito estero americano purché questi continuino ad acquistare le loro merci e consentano loro un cambio competitivo. Tuttavia, il modello di crescita USA – basato sulla compressione del reddito da lavoro, l’accentuazione delle disuguaglianze, l’indebitamento delle famiglie di lavoratori e la creazione di potere d’acquisto da parte del sistema finanziario USA – non può più costituire la base del funzionamento dell’intera economia mondiale, così come non può più rappresentare la fonte ultima della domanda mondiale. Il “privilegio” di emettere la principale moneta di riserva internazionale (il dollaro), però, fa ancora in modo che la liquidità creata sia tranquillamente accettata in pagamento anche all’estero. Senza una politica economica e, conseguentemente, monetaria europea condivisa, dunque, non basta una lieve rivalutazione della moneta cinese o una “stretta” alla finanza americana per riequilibrare l’economia mondiale e ritrovare la strada dello sviluppo globale. La mancanza di decisioni significative del G-20, la linea recessiva europea e il rallentamento, da ultimo, della crescita cinese delineano il rischio di una nuova frenata dell’economia mondiale.
fonte: http://www.cgil.it/Intranet/Archivio/Politiche%20economiche/Nota_su_Riforma_della_Finanza_USA.pdf
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