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La conclusione di Campus Lab Senegal 2010
21.08.2010

Cari tutti di Planetnoprofit, Amici & Sostenitori,
sono trascorsi pochi giorni, meno di due settimane dalla conclusione di Campus Lab Senegal 2010, progetto formativo, di promozione interculturale, analisi e ricerca antropologica sul campo, mediato da relazioni forti, da incontri e approcci ad un turismo consapevole che ci ha visto protagonisti in Senegal in partnership con le Ass. AFRICULTURBAN e JAHKARLO.
CAMPUS LAB è stata ed è tutt'ora un esperienza che ha deposto nel suo piccolo, semi di convivialità, di apertura ad una fiducia dell'altro che non è mai scontata. Il progetto che ha coinvolto complessivamente otto giovani, quattro ragazze italiane e quattro ragazzi senegalesi; coordinato da uno staff formatori costituito da Barbara Fossati, Chiara Barison e Massimo Martin, ha posto al centro di ogni attività e percorso formativo, la capacità sempre di porsi ciascuno al posto dell'altro. La diversità di culture, di storie e vicende individuali, di stili di vita e di diverso approccio verso l'altro, assumono nell'esperienza del campus un valore oltre ogni aspettativa. Il gruppo si sostiene, si scopre coeso e capace di affrontare insieme percorsi di ricerca antropologica, di senso, di mediazione che solo un autentico dialogo sicero e aperto può produrre.
Chiara Barison (Socia formatrice cooperante Ass.Planetnoprofit) che vive in Senegal, ha scritto l'articolo che segue, pubblicato su CORRIERE IMMIGRAZIONE, traendo anche spunto dall'esperienza del Campus e dal lavoro ricco di elementi di ricerca applicata al progetto stesso, per il quale, insieme agli altri formatori ha lavorato da mesi.
Ringraziando anche i Partner, Fabio Gatti e Matador e quanti ci hanno sostenuto: Istituzioni, Università, Sportelli Informagiovani, Stampa di Settore e web magazine, auspico che il progetto possa crescere e tratteggiare nuove strade per una cooperazione consapevole ed una formazione allo sviluppo alla rovescia, dove il Senegal possa mettere in campo le risorse e le strategie e coloro che arrivano dall'Europa le rielaborino insieme ai partner locali per realizzare esperienze umane forti di consapevolezza e crescita sociale.

Cristiano Di Blasi
Dakar-clandò
Da Dakar, Senegal
La rubrica di Chiara Barison
A lezione di slam. Noi al posto loro. El Che
Oggi il tempo è grigio a Dakar. Le nuvole, gonfie di pioggia, coprono un cielo abitualmente ramato, rendendolo cupo, pesante. Tira un venticello piacevole che lascia finalmente respirare dopo giorni di boccheggiamento e afa. Scrivo appoggiata ad un tavolino mentre la bonne e Maman, la moglie di Fabio, preparano la colazione. Questi giorni sono densi di lavoro, il gruppo che partecipa a Campus Lab Senegal è numeroso. Sono stanca ma felice, non pensavo che dei ragazzi italiani e senegalesi che non si conoscevano l'un l'altro fino a pochi giorni prima, potessero diventare così uniti in così poco tempo.
Quando ero studentessa l'avevo immaginato e sognato. Avevo sperato che l'università, attraverso qualche professore intraprendente e alternativo, avesse potuto proporre esperienze formative in Africa. Mi sono chiesta a lungo perché questo continente, così ricco di storia e di cultura, fosse da sempre messo in secondo piano. Noi giovani italiani non conosciamo nulla della storia, della geografia, della letteratura africana e questa mancanza di valorizzazione del continente da parte del sistema scolastico italiano ed europeo in generale, ha contribuito a cementificare stereotipi e pregiudizi. L'Africa rimane sempre e solo un luogo lontano, misterioso, povero; grembo di guerre e conflitti. Scrivo e rifletto su come sia stata portata avanti l'idea di un continente incapace di dare. Il verbo che più spesso le viene associato è invece il suo opposto, ricevere. L'Africa dello stereotipo occidentale è seduta pigramente in attesa: in attesa che qualcosa succeda; in attesa che qualcuno dall'esterno venga a cambiare le cose; in attesa di imparare, di essere guidata, di essere rieducata, di essere aiutata. Mi fermo per un istante e prendo il piccolo quaderno alla mia destra. Lo apro e inizio a leggere: “Non voglio mettermi al posto di coloro che prendono il potere con le armi perché un giorno lo pagheranno con la propria anima; non mi metterò mai al posto di chi dovrebbe far applicare la legge e poi non la rispetta. Il mio posto non è tra quelli che in nome dei soldi hanno commesso crimini, incarcerato innocenti; non mi metto al posto di chi lascia che sia l'invidia a guidare la propria vita. Il mio posto è in tribunale, sono il marito della giustizia per la vita”. Sono parole di Cherif, in arte El Che (video). Sorrido perché El Che è un ragazzo della periferia di Dakar, uno di quei tanti giovani senegalesi cresciuti sulla strada, senza mezzi e senza speranza per il futuro. L'hip hop lo ha salvato come ha salvato tanti altri ragazzi. Il Senegal è hip hop e Matador (video) l'aveva capito già dieci anni fa quando ha creato uno dei primi gruppi rap del paese, i BMG 44. La cultura hip hop poteva, secondo questo giovane ragazzo di Thiaroye, la periferia pià problematica di Dakar, un potenziale vettore di sviluppo. Cosa c'era di meglio di trasmettere un messaggio ai giovani se non attraverso la musica che più amavano? E se ci fosse stato anche un centro che avesse potuto accogliere tutti quei ragazzi della periferia che sentivano il bisogno di esprimersi attraverso l'arte? Così Babacar Mbaye, in arte Matador ha creato Africulturban, un'associazione che porta avanti da anni l'idea di creare sviluppo a partire dalla cultura urbana. El Che è proprio uno di quei ragazzi che Matador ha strappato alla strada, dandogli la possibilità di esprimere la propria energia attraverso le parole. In pochi anni El Che è diventato uno dei più bravi artisti slam senegalesi e voce supporto nei concerti di Matador. Continuo a leggere: “il mio posto è diminuire l'angoscia, vincere la paura, estirpare l'odio; ridefinire il concetto di gioia e mantenere la felicità, ospitare il destino con le parole in ogni cuore. Sono nello stesso posto di Matador ma non della stessa classe. Non farò quindi come lui, ma ancora meglio”. Se lo slam è definito come ' colpire con le parole ', El Che è riuscito sicuramente a fare rumore. Le sue parole si fanno sentire. E danno. E' stato lui che ha insegnato l'importanza dell'uso e della scelta delle parole nel corso del suo atelier slam alle studentesse universitarie arrivate da Trieste a Dakar per seguire il campus lab. Lo sognavo un corso così quand'ero studentessa e, anni dopo, l' ho proposto agli studenti venuti ad assistere alcune mie conferenze all'università. Avevo bisogno che potessero vedere l'Africa, il Senegal senza filtri, con i loro occhi. Avevo bisogno che venissero sapendo non di dover insegnare qualcosa a qualcuno ma nell'ottica di dover ricevere ciò che i loro coetanei senegalesi avrebbero potuto insegnare loro. Questa è educazione; è conoscenza; ed entrambi passano attraverso il viaggio, la scoperta, il dialogo, lo scambio. L'incontro con Matador era stato per me illuminante. Mi aveva insegnato che non è vero che tutti i senegalesi vogliono lasciare il paese; che c'è invece chi decide di restare e battersi per costruire il paese; che l'arte si può trasformare da attore culturale in attore economico, creando sviluppo; che chi fa l'artista sa anche informare, formare e insegnare; che l'Africa sa anche dare e non è solo in attesa di ricevere. Il Campus Lab Senegal è nato così, dalla sinergia tra Africulturban, Planetnoprofit e AssJahKarlo. “E' dai piccoli progetti che si raggiungono poi i grandi risultati” ribadisce spesso Cristiano Di Blasi, presidente di Planetnoprofit, un'associazione senza fini di lucro con sede a Milano che da anni si occupa di progetti di cooperazione nei paesi in via di sviluppo “e semplicemente perché le persone riescono ancora a guardarsi negli occhi”. Questo è anche lo stesso spirito che anima l'associazione AssJahkarlo, creata da Fabio Gatti, un ragazzo italiano che da anni vive a Dakar. “E' importante che l'arte lanci un messaggio. E chi come me si occupa di musica sa che ha il potere di fare arrivare questo messaggio a migliaia di persone” precisa Fabio. La sua associazione, oltre a lavorare nell'ambito del turismo responsabile, si occupa anche di danza e musica tradizionale africana. “Da tempo stiamo lavorando sulla tematica della migrazione clandestina affinché passi il messaggio che non siamo contro l'emigrazione ma contro l'emigrazione come fuga. E' importante che chi emigra, una volta tornato, possa condividere la sua esperienza e le conoscenze che questa esperienza gli ha dato con chi non ha avuto la fortuna di pater partire”. Questa anche l'idea di Matador: “I paesi occidentali sono già stati costruiti. L'Africa invece è un continente in cantiere. Siamo noi africani a doverlo costruire ma come possiamo farlo se abitiamo all'estero? Lo sviluppo passa innanzitutto attraverso modelli e modi di pensare. Se i migranti cominciassero a investire nell'ottica del lungo termine e nell'impresa, forse questo potrebbe contribuire allo sviluppo del paese”. Un proverbio wolof recita “se vuoi aiutarmi, non darmi del pesce ma insegnami a pescare” e noi ad Africulturban insegniamo ai ragazzi l'importanza del lavoro, della professionalità, dell'impegno e della costanza; e che la cultura hip hop può diventare impresa e creare posti di lavoro. E' così negli Stati Uniti, perché non dovrebbe essere così anche qui, in Senegal”. Leggo ancora dal quaderno: “Il mio posto è tra quelli che hanno rispetto, considerazione e fedeltà; il mio posto è con voi, fratelli, sorelle. Noi assieme, simbolo di speranza per il bianco, il giallo, l'arabo e il nero, occhi negli occhi, dalla bocca all'orecchio, da anima a anima, noi, nello stesso luogo, lo stesso sangue, lo stesso cuore, la stessa luce”. L'avevo sognato, giovane studentessa a lezione nell'aula magna della facoltà di scienze della formazione di via Tigor, a Trieste. Chiudo il quaderno, le ragazze mi chiamano. Sorridono e mi dicono: “Il Senegal è bellissimo”. El Che, ragazzo della periferia di Dakar, strappato dalla strada da Matador, ha insegnato loro cosa vuol dire mettersi 'al posto loro'. Giovani senegalesi che danno lezione a loro coetanei italiani. Lo stereotipo, semplicemente grazie allo scambio e all'incontro si è frantumato e i verbi si sono finalmente invertiti. Non più venire per dare, ma venire per ricevere. Perché come ha scritto El Che nel piccolo quaderno che mi ha regalato, “Noi al loro posto; loro al posto nostro; loro al posto nostro, noi al loro posto; noi e loro nello stesso posto. Un solo posto per loro e noi”.

Chiara Barison, dottoressa in scienze della comunicazione, è attualmente iscritta al corso di dottorato internazionale dell'università di Trieste in Tansborder policies for daily life. Da tre anni collabora con un'associazione culturale basata a Pikine, quartiere periferico di Dakar, chiamata Africulturban, che si occupa di creare impresa a partire dall'hip hop. Ha scritto un libro intitolato 'Lettere dal Senegal', edito da Altromondo editore e girato tre documentari, tra cui uno, 'Le invisibili', parla di donne sposate a migranti partiti all'estero visibile su internet. Attualmente residente a Dakar, sta svolgendo una ricerca su campo sui flussi di rientro dei migranti, sulle nuove forme di migrazione e sull'economia informale, con uno studio sul mercato storico di Dakar, Sandaga.

Cristiano Di Blasi
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Ufficio di Presidenza
Coord. Area Formazione e Internazionale
Coop. Decentrata allo Sviluppo
Associazione Culturale Pl@netnoprofit
Via D. Alighieri, 36 Crespiatica - Lodi
tel. +39 338 8387246
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