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Breve storia dell’abolizione della pena di morte in Italia
21.11.2010

Breve storia dell’abolizione della pena di morte in Italia di Claudio Giusti
Edizione 30 novembre 2010

Breve storia dell’abolizione della pena di morte in Italia.
30 aprile 2009
30 aprile 1859, Il Governo Provvisorio Toscano abolisce la pena di morte.

“Siamo tutti figli di Caino”

Il 2 ottobre 2007, con la Legge Costituzionale Numero Uno, il nostro Paese ha concluso il cammino iniziato due secoli fa quando, il 30 novembre del 1786, il Granducato di Toscana aboliva la pena capitale. Abbiamo liberato l’Italia dal termine “pena di morte”. Non è stato facile: il percorso è stato lungo, accidentato e irto di ostacoli.

Senza scomodare Guglielmo il Conquistatore, Tommaso Moro e altri , possiamo sostenere che l’abolizionismo inizia nel 1764, con la pubblicazione dell’opuscolo intitolato “Dei delitti e delle pene” con cui il milanese Cesare Beccaria poneva al centro del dibattito intellettuale del tempo il tema della pena di morte.

Italo Mereu ha brillantemente esposto le contraddizioni, le ambiguità e i limiti del pensiero di Beccaria. Ha spiegato come distinguere fra il Beccaria mitizzato dai posteri e quello vero e di come fosse invece coerente, nel 1797, l’abolizionismo del lughese Giovanni Compagnoni. Tutto vero, ma per fortuna il Movimento Abolizionista ha, in questi due secoli, accumulato una tale quantità di dati, fatti e di esperienze da rendere superfluo l’utilizzo del pensiero dell’illuminista milanese.

In ogni caso, a difesa di Beccaria, è doveroso far notare le insuperabili difficoltà che egli avrebbe incontrato nel pubblicare un testo più radicale e anche quanto fossero incoerenti altri pensatori del suo tempo come John Stuart Mill e Thomas Jefferson , per non parlare poi dei francesi che, nel 1795, abolirono la pena di morte, ma a condizione che prima fosse proclamata una impossibile “pace generale”, mentre Robespierre teneva il più bel discorso mai fatto contro la pena capitale e la Convenzione, seguendo le indicazioni del dottor Joseph Ignace Guillottin, adottava un nuovo e più umano strumento di morte. (che sarà l’unica cosa moderna mantenuta poi dal Vaticano)

Nel Settecento i supplizi erano raccapriccianti, preceduti dalla tortura e attuati con la massima crudeltà possibile. I condannati erano bruciati, bolliti, sbudellati e squartati. La stessa impiccagione era atroce e seguita dallo smembramento del disgraziato, vivo o morto che fosse. In Inghilterra i reati passibili di pena di morte erano più di 200 e Arthur Koestler, nel suo “Reflections On Hanging” , afferma che i patiboli posti agli incroci delle strade inglesi erano così comuni che venivano usati come riferimento dalle neonate guide turistiche. Il Bill of Rights inglese del 1689, vietando le pene “crudeli e inusuali”, si proponeva appunto di porre un limite alla ferocia dei carnefici e Beccaria, come Verri, ebbe il merito di porre il problema in modo chiaro e di fare interessare l’intelligencija illuminista all’idea che:
“Non è utile la pena di morte per l'esempio di atrocità che dà agli uomini.”

Contraddizioni a parte il successo di Beccaria fu immenso. Messo all’indice in Italia “Dei delitti e delle pene” fu apprezzato da Voltaire e accolto con entusiasmo in tutta Europa. Beccaria trovò sostenitori anche in America dove Benjamin Rush propose che la Costituzione stessa vietasse la pena capitale e dove sia Jefferson che Franklin erano abolizionisti. Per un quarto di secolo il suo testo fu letto e riletto, discusso, tradotto, stampato e ristampato. Poi arrivò la prima abolizione e i toscani la festeggiano con legittimo orgoglio, ma questo fu l’ultimo afflato di un mondo che stava per essere travolto dalla Rivoluzione.

L’abolizionismo illuminista fu schiacciato dal rullo compressore dei codici napoleonici prima e della reazione codina dopo. Il ritorno dei vecchi regimi coincise con un rinnovato entusiasmo per il boia di cui De Maistre fa il panegirico nel 1821:

“Ogni grandezza, ogni potere, ogni sudditanza si basano sul boia: egli costituisce l’orrore e il legame della società umana. Togliete dal mondo questo agente e nello stesso istante l’ordine lascia il posto al caos, i troni s’inabissano e la società scompare.”

Credo sia impossibile trovare chi meglio esprima la natura terroristica della pena di morte e di come questa sia sempre un fatto politico, una dimostrazione del potere assoluto dello stato sull’individuo.

Oggi, con il mondo in grandissima parte abolizionista, questa posizione di “assolutismo statale” la troviamo in Oriente, in Giappone, Cina e Singapore, mentre negli Stati Uniti c’è l’altro estremo della giustificazione del patibolo: il volere democratico della maggioranza della popolazione.

Nondimeno, in questi ultimi duecento anni abbiamo constatato che le società non scompaiono con il patibolo e nemmeno la fiammella dell’ideale abolizionista scomparve con il Secolo dei Lumi. Sopravvisse in Francia grazie allo scrittore Victor Hugo (quello del Gobbo di Notre Dame) per ricomparire nel posto più inaspettato. Il primo marzo 1847 lo stato americano del Michigan, che non aveva esecuzioni da dieci anni, divenne la prima giurisdizione stabilmente abolizionista, dimostrando così che, anche negli Usa, è possibile vivere senza ammazzare la gente. L’anno successivo l’abolizione tornava in Europa, a San Marino, mentre, nel 1849, sul finire della rivoluzione nazionale, sarà la gloriosa e dimenticata Repubblica Romana a porre (primo stato al mondo) nella propria Costituzione l’abolizione della pena capitale. I patrioti italiani come Mazzini, Garibaldi e il forlivese Aurelio Saffi, conoscevano fin troppo bene l’uso reazionario e repressivo del patibolo e questa abolizione la vollero scrivere nella loro legge fondamentale:

“ART. 5. — Le pene di morte e di confisca sono proscritte”

Durò solo un attimo. La Costituzione della Repubblica Romana (prima costituzione democratica del mondo) fu proclamata in Campidoglio il 3 luglio del 1849, mentre le truppe francesi occupavano la città. Fu un grande lascito e va a nostro disonore l’averlo dimenticato. Poi i patrioti italiani furono dispersi, perseguitati e uccisi (come il capopopolo romano Ciceruacchio, fucilato con il figlio dodicenne Lorenzo nell’agosto del 1849) e il loro sogno di libertà e unità sembrò finito per sempre. Eppure, dopo solo un decennio, e questa volta con l’aiuto delle armi francesi, il sogno trionfava.

Nelle frenetiche giornate della Seconda Guerra di Indipendenza fu di nuovo Firenze a rimettere in campo l’abolizione. Il 30 aprile del 1859 il Governo Provvisorio Toscano, onorando la memoria dei padri, aboliva la pena capitale nel Granducato, affermando che “fra noi la civiltà fu sempre più forte della scure del carnefice”. Sul momento la cosa non suscitò particolare interesse, ma poi, quando si riunì il Parlamento d’Italia (il 17 marzo1861 fu proclamata l’unità del paese sotto Re Vittorio Emanuele II), ci si rese conto che la pena capitale esisteva in tutto il Regno, ma non in Toscana.

La Camera dei Deputati risolse con eleganza la spinosa questione. Dopo un vivace dibattito la Camera votò, il 13 marzo 1865, la fine della pena di morte per i reati di diritto comune.

Era stato Carlo Cattaneo a iniziare la battaglia, chiedendo la fine della pena capitale in nome del progresso e della civiltà, ma soprattutto per la sua dimostrata inutilità. A lui si unirono, con il loro “Giornale per l’abolizione della pena di morte” (1861-1865), i giuristi Pietro Ellero, che aveva “orrore per la schifosa danza” dell’impiccagione , e Francesco Carrara che la considerava più “illegittima” che inutile. A questi si accomuneranno Guerrazzi, Tommaseo, Carducci, Garibaldi e soprattutto Pasquale Stanislao Mancini: un raro caso di uomo politico che non annacquava il suo abolizionismo nel passaggio dai banchi dell’opposizione a quelli del governo. Con lui la maggioranza dei deputati decise che: “Sarebbe difficile persuadersi che la Toscana [sia la] sola, dove la conservazione dell’ordine pubblico non ha bisogno di questa pena” . Purtroppo il Senato, che era di nomina regia, bloccò tutto e fummo ancora una volta battuti da San Marino che, nello stesso 1865, divenne abolizionista totale.

Ma l’uso del patibolo aveva i giorni contati. Le esecuzioni cessarono, grazie all’amnistia, nel 1877 e, per i successivi cinquant’anni, l’Italia mostrò al mondo che si poteva vivere senza la pena capitale. Infatti la lotta abolizionista aveva preso nuovo vigore dopo la bocciatura senatoriale e Mancini prima e Zanardelli poi, con l’appoggio dei giuristi e dell’opinione pubblica, portarono il Parlamento a votare, il 28 novembre 1888, il nuovo Codice Penale e l’abolizione della pena capitale per i crimini comuni. Il desiderio di fornire al mondo un esempio di legislazione avanzata aveva vinto sulle obiezioni dei fautori del patibolo che, ispirandosi alla Germania come oggi si ispirano agli Usa, affermavano, allora come oggi, che la pena di morte è un deterrente e che la sua abolizione avrebbe causato un aumento degli omicidi .

Purtroppo l’abolizione era ben lungi dall’essere totale. Il patibolo era previsto nelle colonie, in guerra e durante lo “stato d’assedio” (come quando, nel 1898, il generale Bava Beccaris prese a cannonate gli operai in sciopero). In ogni caso il nostro paese fece per mezzo secolo parte dello sparuto drappello dei paesi che già allora erano abolizionisti. Il Codice Zanardelli entrò in vigore il 1° gennaio 1890 e tale rimase per i successivi quarant’anni.

Fu il fascismo a fare tornare il boia nel nostro paese. Le “leggi fascistissime” del 9 novembre 1926 punivano con la morte gli attentati al re e al duce. Poi, con il Codice Rocco del 1931, la pena di morte fu allargata agli omicidi comuni. Comunque è doveroso rammentare che i fascisti furono costretti a realizzare il loro Tribunale Speciale, visto che la Magistratura non era disponibile ad aderire ai loro desideri, come invece lo fu quella tedesca nei confronti del regime nazista.

La pena capitale (somministrata dal plotone d’esecuzione) andò avanti per una ventina d’anni. Fu utilizzata con parsimonia se paragonata a quanto accadeva in Germania e in Unione Sovietica, ma in aggiunta alle uccisioni “legali” occorre ricordare gli assassini e i crimini di guerra commessi sia prima che durante la Seconda Guerra Mondiale. Le ultime esecuzioni avvennero nella primavera del 1947 quando furono fucilati tre criminali comuni noti come “Quelli di Villarbasse”.

Italia e Germania abolirono la pena di morte subito dopo la fine della guerra, mentre il Giappone non l’ha ancora fatto. Una delle molte ragioni può essere il senso di colpa dei due paesi europei che si considerano responsabili della guerra e volevano rompere con il loro passato dittatoriale anche in questo, mentre l’altro, per via delle bombe atomiche, si considera una vittima.

La nostra Costituente repubblicana non poteva fare altrimenti che abolire la pena di morte, ma lo fece con riserva lasciandola come estrema ipotesi nell’articolo 27 che recitava: “Non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”.

Nei vent’anni successivi all’abolizione italiana accadde l’esatto contrario di quanto previsto dai forcaioli. Il tasso d’omicidio si ridusse drasticamente fino ad arrivare a un terzo di quello del 1948, passando dal 5,5 per centomila all’ 1,4. Il Canada, che nel 1976 ha abolito la pena di morte proprio mentre gli americani la facevano tornare, ha avuto un’esperienza identica e di recente l’Italia ha visto un vertiginoso calo degli omicidi, passati dai 1.900 del 1991 ai 600 di oggi. L’esperienza italiana, oltre a quella secolare di alcune giurisdizioni americane, dimostra al di là del ragionevole dubbio che la pena capitale non è un deterrente.

Ma la fede nel boia è dura a morire.

A partire dagli anni del Terrorismo, e fino alle stragi mafiose del 1992, vi furono diversi tentativi di reintrodurre la pena di morte utilizzando lo stato di guerra interna (o di utilizzare la pena di morte per mettere l’Italia in una sorta di dittatura militare avvalendosi della voglia di vendetta del popolino), come non sono rari oggi i casi in cui, di fronte a qualche delitto particolarmente efferato e ben visibile appunto perché raro, si alzino voci in favore di un impossibile ritorno del patibolo.
In ogni caso quei tentativi fallirono grazie alla nostra Costituzione e all’Europa.

La richiesta si basava sulla teorica possibilità di dichiarare lo stato di guerra sul territorio nazionale, (o parte di esso) e la base giuridica era il Regio Decreto 773 del 18/06/1931 “Dello stato di pericolo pubblico e dello stato di guerra”.
Questo reperto archeologico fa a pugni con la nostra Costituzione che non prevede alcun caso in cui i diritti che garantisce possano essere sollevati e in cui non esiste un Capo del governo che possa dichiarare la guerra, che è sempre intesa come conflitto esterno, come avviene in tutte le norme internazionali che prevedono eccezioni alla totale abolizione della pena di morte.
Se il ripristino del patibolo incontrava insormontabili ostacoli legali interni, ancora maggiori erano quelli che avrebbe incontrato a livello internazionale, dove le organizzazioni sovranazionali dei partiti erano abolizioniste e dove sia il Consiglio d’Europa che l’Unione Europea lo erano in maniera adamantina.

L’Europa è da lungo tempo contrarissima alla pena capitale e non esiste, nemmeno in teoria, la possibilità che essa consenta ad uno stato membro, dell’Unione Europea o del Consiglio d’Europa, di far tornare il boia. A onor del vero occorre ricordare che, al contrario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che non ne parla, la Convenzione Europea prevede espressamente la pena capitale nell’Articolo 2, ma questa possibilità è stata sempre più limitata e ora, con il Tredicesimo Protocollo del 2002 e con l’esplicito divieto inserito nel progetto di Costituzione Europea, il nostro continente è “death penalty free”.

Nel 1981 la Francia fu l’ultimo paese dell’Europa Occidentale ad abolire la pena di morte (grazie al Presidente Mitterandt e al suo ministro Robert Badinter) e questo consentì all’Europa di diventare il riferimento del Movimento Abolizionista mondiale. Con il Sesto Protocollo (1983) la possibilità di utilizzare la pena di morte fu ristretta al solo tempo di guerra e furono i paesi europei a convincere le Nazioni Unite ad approvare prima le Garanzie Ecosoc nel 1984 e poi, nell’indimenticabile 1989, il Secondo Protocollo

Nel frattempo l’Italia non stava con le mani in mano e, il 13 ottobre 1994, aboliva la pena di morte dal codice militare, diventando uno degli ormai 100 paesi abolizionisti totali. La semplice cancellazione del termine “pena di morte” dalla nostra Costituzione, che pareva cosa di poche settimane, ha invece richiesto un tempo lunghissimo a dimostrazione che, dietro un unanimismo di facciata, non sono pochi i politicanti italiani che amerebbero “provare pubblicamente che si è pronti a assumere ciò che ci fa orrore quando ne vada della difesa della collettività”

Oggi, con il tasso di omicidio più basso di sempre, possiamo fare nostre le parole della Legge Toscana del 30 novembre 1786:
“abbiamo abolito con la presente Legge per sempre la Pena di Morte contro qualunque reo”
Viva l’Italia.

Claudio Giusti









Dott. Claudio Giusti
Via Don Minzoni 40, 47100 Forlì, Italia
Tel. 39/0543/401562 39/340/4872522
e-mail giusticlaudio@alice.it
http://www.osservatoriosullalegalita.org/special/penam.htm
Membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio sulla Legalità e i Diritti, Claudio Giusti ha avuto il privilegio e l’onore di partecipare al primo congresso della sezione italiana di Amnesty International ed è stato uno dei fondatori della World Coalition Against The Death Penalty.




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http://win.agliincrocideiventi.it/Anno4/Agosto2006/contro_la_pena_di_morte.htm
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L'omicidio volontario in Italia. Rapporto EURES - ANSA 2007
http://www.eures.it/dettaglio_ricerca.php?id=19


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