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A 30 anni dal sisma del 1980 di Lucio Garofalo
29.11.2010

A 30 anni dal sisma del 1980
Nei giorni scorsi non sono mancate le manifestazioni ufficiali per celebrare
il trentennale del terremoto che il 23 novembre 1980 sconquassò il Sud
Italia con un'intensità superiore al 10° grado della scala Mercalli e una
magnitudo pari a 6,9 della scala Richter. Una scossa durata 100 secondi fece
tremare l'Appennino meridionale, radendo al suolo decine di paesi
dell'Irpinia e della Lucania. A 30 anni di distanza il ricordo di quella
tragedia suscita emozioni di sgomento e cordoglio, un profondo senso di
angoscia, dolore e rabbia.
Fu in effetti il più catastrofico cataclisma che ha investito il Sud nel
secondo dopoguerra, un immane disastro provocato non solo dalla furia degli
elementi naturali, bensì pure da fattori di ordine storico, economico ed
antropico culturale. Nei giorni successivi al sisma molti si spinsero ad
ipotizzare agghiaccianti responsabilità politiche, polemizzando sui ritardi,
sulle lentezze e carenze nell'opera dei soccorsi, lanciando una serie di
accuse che teorizzavano una vera e propria "strage di Stato". La furia
tellurica si abbatté in modo implacabile sulle nostre comunità, ma in
seguito la voracità degli avvoltoi e degli sciacalli completò l'opera di
devastazione.
Il ritorno ad una condizione di "normalità" ha rappresentato un processo
molto lento che ha imposto anni nei quali le famiglie hanno cresciuto i
figli in gelidi container con le pareti rivestite d'amianto. La fine
dell'emergenza, il completamento della ricostruzione, lo smantellamento
delle aree prefabbricate, costituiscono opere relativamente recenti.
Inoltre, la ricostruzione urbanistica, oltre che stentata e carente,
convulsa ed irrazionale, non è stata indirizzata da una intelligente
pianificazione politica volta a recuperare e consolidare il tessuto della
convivenza e della partecipazione democratica, creando quegli spazi di
aggregazione sociale che rendono vivibili le relazioni interpersonali e gli
agglomerati abitativi, che altrimenti restano solo dormitori.
Nella fase dell'emergenza le autorità locali attinsero ampiamente agli
ingenti fondi assegnati dal governo per la ricostruzione delle zone
terremotate. La Legge 219 del 14 maggio 1981 prevedeva un massiccio
stanziamento di sessantamila miliardi delle vecchie lire per finanziare
anche un piano di industrializzazione moderna. Si progettò così la
dislocazione di macchinari industriali (obsoleti) provenienti dal Nord
Italia all'interno di territori impervi e tortuosi, in cui non esisteva
ancora una rete di trasporti e comunicazioni. Fu varato un processo di
(sotto)sviluppo che ha svelato nel tempo la sua natura rovinosa ed
alienante, i cui effetti sinistri hanno arrecato guasti all'ambiente e
all'economia locale. Per inciso, occorre ricordare che il contesto
territoriale è quello delle aree interne di montagna, all'epoca
difficilmente accessibili e praticabili. Bisogna altresì ricordare
l'edificazione di vere e proprie "cattedrali nel deserto" come, ad esempio,
l'ESI SUD, la IATO ed altri insediamenti (im)produttivi, in gran parte
chiusi e falliti, i cui dirigenti, quasi sempre del Nord, hanno installato i
loro impianti nelle nostre zone per sfruttare i finanziamenti statali
previsti dalla Legge 219.
Il progetto di sviluppo del dopo-terremoto era destinato a fallire fin
dall'inizio, essendo stato concepito e gestito con una logica affaristica e
clientelare tesa a favorire l'insediamento di imprese estranee alla nostra
realtà, che non avevano il minimo interesse a valorizzare le risorse e le
caratteristiche del territorio, a considerare i bisogni effettivi del
mercato locale, a tutelare e promuovere le produzioni autoctone, sfruttando
la manodopera a basso costo e innescando così un circolo vizioso e perverso.
Vale la pena ricordare che le principali ricchezze del nostro territorio
sono da sempre l'agricoltura e l'artigianato. Si pensi all'altopiano del
Formicoso, considerato il granaio dell'Irpinia, dove qualcuno, all'apice
delle istituzioni, ha deciso di allestirvi una megadiscarica. Si pensi ai
rinomati prodotti agroalimentari come il vino Aglianico di Taurasi o la
castagna di Montella, solo per citare quelli a denominazione d'origine
controllata. Un'enorme potenzialità, assai redditizia in termini
occupazionali, è insita nell'ambiente storico e naturale, nel turismo
ecologico, archeologico e culturale, che non è mai stato valorizzato dalle
autorità politiche locali.
Negli anni abbiamo assistito ad un processo di mutazione antropologica
dell'Irpinia. Con l'avvento della globalizzazione neoliberista la società
irpina ha subito un'improvvisa accelerazione storica. Da noi convivono ormai
piaghe antiche e nuove contraddizioni sociali quali la disoccupazione, le
devianze giovanili, l'emarginazione, che sono effetti causati da una
modernizzazione consumistica. Anche in Irpinia l'effetto più drammatico
della crisi scaturita dal fallimento di un modello di sviluppo diretto
dall'alto, è stato un processo di imbarbarimento che ha alterato
profondamente i rapporti umani. I quali sono sempre più improntati
all'insegna di un feticismo assoluto, quello del profitto e della merce,
trasmesso alle nuove generazioni come l'unico senso della vita.
Il cosiddetto "sviluppo" ha provocato mostruose sperequazioni che hanno
avvelenato gli animi e i rapporti umani, approfondendo le disuguaglianze già
esistenti e creando nuove ingiustizie e contraddizioni, generando sacche di
emarginazione e miseria, precarietà e sfruttamento in contesti sempre più
omologati culturalmente. Rispetto a tali processi sociali e materiali, le
"devianze giovanili", i suicidi e le nuove forme di dipendenza sono i
sintomi più inquietanti di un diffuso malessere morale ed esistenziale.
Insomma, si può affermare che a 30 anni di distanza si perpetua l'arroganza
di un potere affaristico e clientelistico che continua a ricattare i
soggetti più deboli, riducendo le libertà individuali, influenzando gli
orientamenti politici per creare serbatoi di voti. Tali rapporti di forza
sono mantenuti in modo cinico e spregiudicato. Pertanto, è necessaria
un'azione politica che propugni una trasformazione radicale dell'esistente
insieme con gli altri soggetti effettivamente antagonisti e progressisti
presenti nella società irpina. Le nostre popolazioni sono tuttora soggiogate
da una casta politica vetusta ed incancrenita che comanda con metodi ormai
anacronistici, alla maniera del celebre "Gattopardo", convinto che tutto
debba cambiare affinché nulla cambi e tutto resti come prima.
Il mio modesto contributo è semplicemente un tentativo di analisi della
realtà per provare a modificarla. La speranza di giustizia e riscatto delle
popolazioni irpine reclama a gran voce un progetto di trasformazione, ben
sapendo che non conviene mai semplificare problemi tanto vasti e complessi
perché rischia di essere controproducente. La realtà non è mai semplice come
appare, è sempre contraddittoria e mutevole, per cui esige un approccio
critico e un metodo investigativo capace di avvalersi di molteplici
strumenti di indagine e di interpretazione dell'esistente, compresa la
riflessione filosofica, che da sola non è affatto esaustiva o
autosufficiente.

Lucio Garofalo

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