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Il lavoro visto dal treno da www.lavoce.info
20.04.2003

Tanto, tanto tempo fa, prima che cellulari e computer portatili fossero inventati, i passeggeri del "Pendolino" Milano-Roma si dividevano, all’incirca, in due categorie: in prima classe, uomini d’affari e accademici, di solito assorti nella lettura dei quotidiani o placidamente appisolati (soprattutto i secondi); in seconda classe, famigliole, comitive e turisti, che chiacchieravano volentieri di sport e di politica con i compagni di viaggio. A distanza d’anni luce, i passeggeri di prima classe dell’Eurostar lavorano silenziosamente ricurvi sui loro laptops, oppure parlano d’affari (a voce alta) sui loro telefonini. Quelli di seconda classe, invece, continuano a chiacchierare amabilmente fino a destinazione, ma ora con i propri amici, al cellulare. I professori universitari, "retrocessi" in seconda classe, lavorano sui loro portatili, quando non sono appisolati.
Tre ipotesi
Queste osservazioni, suggeriteci qualche tempo da Giorgio Basevi, professore d’Economia internazionale all’università di Bologna, ci hanno portato a formulare tre ipotesi. 1. Il progresso tecnologico è stato, come si dice in gergo, skill-biased: ha accresciuto in altre parole la produttività dei lavoratori istruiti più di quella dei lavoratori meno istruiti (l’uso del computer è molto più diffuso in prima classe). 2. Il progresso tecnologico ha indotto soprattutto i primi a sottrarre tempo allo svago e dedicarne più al lavoro (in prima classe si lavora, invece che leggere, chiacchierare o contemplare il nulla dal finestrino). 3. A differenza di quanto avvenuto negli altri Paesi industrializzati, i salari relativi dei lavoratori più istruiti non si sono aggiustati in modo da riflettere i differenziali di produttività e d’ore di lavoro (i professori universitari, in particolare, oggi non possono più permettersi la prima classe).
I dati "grezzi"
L’analisi di un campione di 8.441 imprese manifatturiere italiane osservate dal 1989 al 1995 conferma in larga misura queste ipotesi. La quota del monte salari dei colletti bianchi, impiegati e dirigenti, sul totale è cresciuta dal 40,8 al 44,3 per cento. Il premio salariale rispetto alla remunerazione media è rimasto però sostanzialmente stabile, passando dal 35 al 36 per cento, mentre la quota di colletti bianchi dell’occupazione totale è cresciuta dal 30,2 al 32,6 per cento. Eppure, questi dati aggregati raccontano una storia in parte ingannevole.
L'effetto "composizione"
In primo luogo, la sostanziale stabilità del premio salariale aggregato nasconde un effetto "composizione". Ad esempio, se cresce il salario medio nelle imprese che pagano premi salariali più elevati (ma ciascun’impresa continua a pagare gli stessi differenziali salariali), l’indice aggregato del premio tenderà a crescere. Questo solo perché il peso di queste imprese nell’indice aumenta. In secondo luogo, l’osservazione delle remunerazioni annue effettivamente pagate non permette di capire se a variare sia il prezzo di un’ora di lavoro (il salario orario) oppure la quantità di ore impiegate. Quando si considerano separatamente le ore di lavoro e le remunerazioni orarie, opportunamente corrette per l’effetto composizione, si ottiene un quadro alquanto diverso. Innanzi tutto, all’interno delle imprese, le ore di lavoro dei colletti bianchi sono cresciute in media più velocemente di quelle dei colletti blu, mentre mediamente il premio orario non solo non è aumentato, ma è addirittura diminuito, di circa il 10 per cento nel periodo considerato. E ciò a dispetto del fatto che grazie alle nuove tecnologie la produttività relativa d’impiegati e dirigenti sia cresciuta. Infine, i dati indicano che la riduzione del premio orario ha riguardato quasi esclusivamente le imprese high-tech, quelle che fanno uso più intensivo di computer: proprio le stesse imprese in cui ore di lavoro e produttività dei lavoratori più istruiti sono cresciute maggiormente.
Le spiegazioni
Almeno due le spiegazioni. La prima è legata alla specializzazione produttiva delle imprese del campione. Le imprese high-tech hanno perduto quote di mercato, interno e internazionale, a vantaggio delle imprese low-tech. Ciò ha verosimilmente contribuito a ridurre la domanda di skills e il differenziale salariale
La seconda spiegazione chiama in causa i meccanismi di contrattazione salariale. Centralizzazione e uniformità del sistema di contrattazione non hanno evidentemente consentito che i salari si adeguassero alla produttività dei lavoratori nelle singole imprese. A livello d’impresa, l'innovazione tecnologica ha comportato maggior produttività e ore lavoro per i lavoratori più istruiti, ma, a causa del mancato aggiustamento delle remunerazioni annuali, ciò si è tradotto in una caduta del premio salariale orario.
E le conseguenze possibili
La riduzione della disuguaglianza delle retribuzioni può essere un obiettivo socialmente desiderabile. Ma è opportuno valutarne attentamente le probabili conseguenze nel medio periodo. Eccone quattro. 1. Le imprese preferiranno sempre più assumere lavoratori più istruiti, divenuti al contempo più produttivi e meno costosi, a scapito di quelli meno istruiti (in effetti, la quota occupazionale dei lavoratori non manuali è, come ricordato, aumentata). 2. I giovani avranno sempre meno incentivi ad accumulare capitale umano. 3. Laureati, manager e "cervelli" vari troveranno sempre più conveniente emigrare 4. I sindacati avranno sempre più difficoltà a rappresentare i colletti bianchi, e il peso occupazionale dei colletti blu, la loro base tradizionale di consenso, continuerà a ridursi.

di Paolo Manasse e Luca Stanca

da www.lavoce.info

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