13.10.2003
Già dimenticata la Bossi-Fini? Verrebbe di fare questa amara considerazione dopo l’accoglienza riservata da molti settori del centrosinistra, politico e sociale, alla mossa – tutta interna al posizionamento nella lotta senza confini nel centrodestra – del leader di AN Gianfranco Fini. Nell’articolo che segue il magistrato brindisino Michele DI SCHIENA prova a fare una lettura critica della sortita del vicepremier, della sua effettiva portata e rammenta le conseguenze nefaste della legge che porta il suo nome.
Una opinione questa non molto diffusa anche tra gli opinionisti ufficiali della cosiddetta sinistra alternativa che facciamo circolare via e.mail non avendo altre possibilità di circuiti informativi, occupati – anche nella sinistra alternativa – dai soliti noti.
Chi la condivide e la ritiene utile la faccia circolare ulteriormente.
Giancarlo CANUTO – Movimento A Sinistra – Brindisi
LA SORTITA DI FINI: SOLO UNA SCOSSA DI ASSESTAMENTO
E’ un errore quello di dare grande rilievo alla sortita dell’onorevole Fini sull’opportunità di concedere il voto amministrativo agli immigrati e di mettere la sua “mossa” al centro di una ridda di attenzioni, commenti ed apprezzamenti come se ci fosse stata in materia da parte del leader di AN una vera e propria svolta foriera di chissà quali rivolgimenti nella maggioranza berlusconiana. Niente di tutto questo. Si è trattato, a ben guardare, non di un terremoto ma di una semplice scossa di assestamento, con finalità di riequilibrio interno e di recupero esterno, che ha fatto seguito ad un vero terremoto, quello delle iniquità , dei turbamenti e dei danni cagionati dalla legge Bossi-Fini. Dovrebbe essere ormai chiaro che ad ogni devastante sisma provocato, con provvedimenti legislativi o con atti politici, da questa maggioranza e da questo governo, fa sempre seguito qualche strumentale aggiustamento, qualche apparente apertura, qualche ingannevole ritorno di fiamma che servono solo per regolare mediocri conti interni e per consolidare le scelte operate anche con l’intento di disorientare e possibilmente dividere il fronte del dissenso e della protesta.
Appare dunque sbagliato dare tanto peso alle dichiarazioni di Fini per diversi motivi. Ed invero il voto amministrativo che dovrebbe essere concesso agli immigrati, sarebbe riservato solo – come lo stesso Fini ha subito precisato – esclusivamente in favore degli stranieri muniti della Carta di soggiorno (una autorizzazione permanente diversa dal “permesso di soggiorno”) che può essere ottenuta dall’immigrato solo dopo sei anni (prima della riforma berlusconiana erano cinque) di stabile permanenza in Italia, autorizzazione questa che il Ministero dell’Interno concede con criteri assai rigorosi destinati a diventare ancora più restrittivi nell’improbabile ipotesi che l’esternazione di Fini finisca per avere qualche concreto sviluppo. Ne consegue che se gli immigrati in possesso di Carta di soggiorno venissero un domani chiamati a votare nelle elezioni amministrative, gli ammessi al voto sarebbero un numero estremamente esiguo rispetto a quello degli stranieri che vivono, lavorano e pagano le tasse sul territorio nazionale.
Si tratterebbe insomma di un beneficio dalle dimensioni assai limitate, di un atto di giustizia praticamente simbolico dentro un mare di incivili pregiudizi, di condizionamenti umilianti ed onerosi, di lacci burocratici, di interventi polizieschi, di improprie carcerazioni (quelle dei centri di permanenza temporanea nella versione aggravata dalla recente riforma), di sanzioni inflitte con procedure prive di efficaci garanzie difensive e di sbrigativi ed inarrestabili meccanismi espulsivi: un malinconico coacervo insomma di misure vessatorie che costituisce l’ossatura della legge Bossi-Fini o, come dice l’on.le Follini, della legge “più Fini che Bossi”. E sì, perché questa legge è un provvedimento che risente di concezioni per le quali la civiltà occidentale sarebbe superiore alle altre (torna alla mente quell’ “uber alles” di nefasta memoria), una legge dell’egoismo e della paura che disdegna l’accoglienza e vede nello straniero solo un soggetto da cui difendersi, una legge guidata da logiche per le quali l’immigrato può venire in Italia solo quando serve con il ritorno già pagato alla scadenza del contratto, una normativa che pretende dagli stranieri quel “posto fisso” indicato ogni giorno a noi italiani come una superata chimera da cancellare per sempre, una legge miope che non riesce a vedere nei fenomeni di immigrazione una grande sfida del nostro tempo e che perciò non può misurarsi con essa per coglierne tutte le opportunità di incontro culturale, d’integrazione sociale e di progresso civile.
Ma un atto simbolico, proprio perché tale, non potrebbe pur sempre aprire la strada ad una radicale modificazione della legge Bossi-Fini? Pia illusione questa da accantonare per due precise ragioni: innanzitutto perché la sortita di Fini non è un “atto” ma una semplice dichiarazione seguita forse dalla presentazione di una proposta di legge destinata, con ogni probabilità , a subire strumentali accantonamenti o ad essere bloccata da quegli stessi ostacoli frapposti a suo tempo dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera per fermare un’analoga iniziativa dell’on.le Livia Turco. E poi perché l’idea di estendere il voto amministrativo agli immigrati è stata annunciata come naturale sviluppo della legge Bossi-Fini insieme ad una orgogliosa rivendicazione della positività di questa legge che avrebbe avuto il merito di creare le condizioni (“i tempi sono maturi”) per il riconoscimento del diritto di voto in questione.
Ed allora gli apprezzamenti e le esultanze di tanta parte dell’opposizione per l’ “apertura” del leader di AN non hanno senso e denunciano inclinazioni alla subalternità miste ad una malcelata speranza che la sortita del vicepremier possa aggravare i contrasti e le lacerazioni all’interno dello schieramento delle destre fino a provocare la caduta del governo. Speranza, però, vana perché questo governo potrà cadere solo per l’acuirsi della crisi economica e l’esplodere del conflitto sociale e non certo per contrasti interni destinati prima o poi a trovare composizione nel “superiore” interesse di una gestione partigiana e pervasiva del potere. Ma anche una speranza pericolosa perché a furia di considerare ora questo ora quell’esponente dello schieramento di destra un “cavallo di troia” utile per espugnare il campo avverso, si finisce per rinunciare a condurre con forza propria e da protagonisti battaglie civili e politiche di primaria importanza col rischio di fare apparire le polemiche all’interno della maggioranza in grado di assorbire ruoli ed istanze dell’opposizione. Una trappola nella quale non si dovrebbe cadere.
Brindisi, 10 ottobre 2003
Michele DI SCHIENA
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