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21.04.2003
"Se ci voltiamo e guardiamo indietro, scopriamo che nell'ultimo anno e mezzo il rapporto fra società e politica, in Italia, è cambiato moltissimo. In particolare, per quel che riguarda la partecipazione. Si pensava e si diceva che nella società si fosse spenta la voglia di mobilitarsi a fini pubblici. Per protestare, esprimere sdegno oppure condivisione rispetto a obiettivi comuni. E, infatti, gli anni novanta sono stati pervasi di rabbia, dapprima, poi di speranza e di delusione. Ma senza partecipazione. Per protestare si usavano altri mezzi, altri strumenti. I referendum, ad esempio. Occasioni di esprimere risentimento ma al contempo strumenti per modificare le regole, le istituzioni. Perché la partecipazione rispondeva a una domanda di cambiamento diretto. Secondo lo spirito del tempo. Democrazia diretta. Immediata. Senza mediazioni. Appunto. Altro strumento di protesta: la sfiducia. Una sfiducia spessa e grigia, che si poteva vedere, respirare. Un clima torpido, greve, difficile da sopportare, per tutti. Chi stava al governo, per anni, ha dovuto fare i conti con questo modello di partecipazione "non convenzionale": la sfiducia. Il distacco. Il rifiuto. Perché oscurava l'orizzonte. Affumicava le lenti con cui si guarda il mondo. E tutto appariva in ombra. Opaco. Le cose fatte, le riforme avviate, le politiche realizzate. Non si vedevano. O, comunque, non se ne coglievano gli effetti. E se qualche immagine trapelava, era macchiata di grigio. Peraltro, nello scorso decennio, i canali della partecipazione risultano perlopiù "invisibili". Non si "faceva" politica. Si "parlava" di politica. Con parenti e conoscenti. Parlavano di politica, i politici. In tivù. Attraverso i media. Più televisione meno partecipazione (diretta). La regola imposta da Berlusconi, nel 1994, molto presto viene condivisa anche dagli altri. Tutti. Centrosinistra e sinistra compresi. In televisione. Nei telesalotti. Basta con le piazze, con le strade. Basta con la partecipazione visibile. Tutti a casa. Senza rischio. Noi, singolarmente, al di qua dello schermo. Loro, i politici, al di là . A parlare fra loro, a rivolgersi a noi. Spettatori. Opinione pubblica. Nell'ultimo anno, però, la scena è cambiata. Si è assistito a una partecipazione crescente, a molteplici occasioni di mobilitazione. Ha cominciato Nanni Moretti, in una manifestazione semideserta organizzata dall'Ulivo. E' salito sul palco dei leader è a fatto megafono al disagio generale della sinistra. Ha funzionato come una scintilla. Le polveri c'erano già . Pronte ad essere incendiate. Da allora è partita una lunga composita e ramificata sequenza di manifestazioni: piccolissime, piccole, medie e grandi. Girotondi, marce, adunate. Alcune mobilitazioni di massa. Con diversi argomenti, diversi motivi, diversi temi: la libertà di comunicazione rai, la giustizia, il lavoro, l'articolo 18; e poi i decreti governativi sui procedimenti giudiziari. Infine, dall'autunno scorso, la pace e la guerra. L'opposizione all'intervento militare in Iraq, il rifiuto della politica internazionale degli USA. Un processo ampio, esteso, che ha coinvolto milioni di persone. Con alcuni protagonisti sociali, da tempo defilati: i giovani, i giovanissimi. E altri nuovi: le donne, le madri, le casalinghe. Considerati fino a ieri anelli deboli della partecipazione politica. Non mi interessa, qui, tessere l'elogio dei movimenti e dell'effervescenza della società . L'elogio del vitalismo. (Io, per natura e temperamento, non marcio e non manifesto; sono riservato e "mediano". Anche nel calcio. Mi piacciono Tacchinardi, Emerson, e Albertini). Né mi interessa ragionare sul merito dei contenuti. Mi interessa, invece, sottolineare questa svolta, questo viraggio. La protesta, il malessere senza mobilitazione, senza partecipazione, senza visibilità , dello scorso decennio, hanno cambiato segno e direzione: oggi si traducono in partecipazione attiva, esplicita e visibile, appariscente. Mantengono e accentuano le forme del passato recente: l'opinione pubblica, i media. Ma tornano a "usare" le piazze e le strade; a occupare luoghi pubblici ed evidenti. Inoltre, intraprendono vie e strumenti differenti: come le bandiere esposte alle finestre e ai terrazzi. Un modo di partecipare e condividere in modo visibile senza allontanarsi di casa. Perché non tutti possono, con facilità , (oppure vogliono) recarsi Roma o nelle città maggiori, per sfilare con gli altri. Quindi: si osserva una diffusa, ampia disponibilità a partecipare, che nello scorso decennio si era eclissata. E al contempo, rispetto agli anni novanta, si assiste a un cambiamento di argomenti e di parole. Restano sullo sfondo i temi acquisitivi, utilitaristi: il fisco, l'interesse locale, la paura personale. Si affermano i temi centrati sull'identità , sulla libertà , sui diritti: l'informazione e la comunicazione, la pace, la democrazia e la sicurezza "globale". Un cambio d'epoca. Che riflette l'intento delle persone di "contare" e di contarsi. Ma riflette anche l'esigenza di colmare il vuoto lasciato dalla politica, che oggi agisce sui media e dentro alle istituzioni, ma lontano dalla società . Peccato che questi cambiamenti, nuova domanda, questa nuova pratica di partecipazione non trovino risposta adeguata. Peccato. Le forze politiche di maggioranza, d'altronde, sono eredi della fase precedente, di rivendicazione senza mobilitazione. Espressa attraverso i media e il brontolio di sfondo. Mentre l'opposizione, quella è figlia di una fase ancor più vecchia. Immagina la partecipazione come militanza, ideologia. Così, questa stagione di cambiamento, di partecipazione, rischia di sfinirsi, defluire in delta, tracimare in frustrazione e nuova delusione. Invece, i movimenti, i cambiamenti del clima d'opinione, per durare e contare, devono istituzionalizzarsi. Influenzare le istituzioni, cambiare l'agenda e il linguaggio della politica, innovare le forme di rappresentanza e i modelli organizzativi, formare nuova classe dirigente. Ma ci vogliono risposte adeguate, perchè questo avvenga. Dal sistema politico, dalle istituzioni. Dall'interno del movimento e della società . Invece assistiamo a due opposte linee, due opposti indirizzi, entrambi riduttivi. Da un lato, c'è chi rivendica il primato della politica, dell'autonomia della politica dalla società e dai suoi movimenti. La politica si fa nei luoghi della politica, in Parlamento. Si fa progettando, programmando, realisticamente. C'è chi, per questo, guarda i movimenti con sospetto: li considera antipolitica, perché non sono "ragionevoli", non delineano obiettivi chiari. Dall'altro lato, c'è chi i movimenti li insegue, li blandisce, ne sancisce lo statuto politico, di attori che entrano nell'agone della rappresentanza in modo diretto. C'è chi contrappone movimenti e classe politica, opinione pubblica e governo-sistema politico. Chi medita di fare dei movimenti un soggetto politico rappresentativo, chi pensa di legittimarsi marciando con i movimenti e nei movimenti, mutuandone il linguaggio, senza rielaborarlo. Politica lontana dalla società . E società lontana dalla politica. Politica fondata sull'autonomia dalla società e società che si propone di fare politica contro la politica. Resta un anello mancante, a scindere queste due prospettive. Fra chi pensa di cambiare la politica e le istituzioni potere senza misurarsi con i movimenti che agitano la società , considerandoli un disturbo. E chi ritiene di dare rappresentanza politica ai movimenti sociali senza tradurne il linguaggio, i valori, i messaggi in termini politici, solo riproducendone forme e contenuti, senza mediazione. Ci vuole una stagione di nuove associazioni, nuove istituzioni, nuove riviste, "fondate" dalla società civile, per raccogliere, intercettarne le voci, le domande, i valori. Per favorire la circolazione di nuove élites. Ci vuole una stagione di ascolto, (auto)revisione organizzativa, comunicativa, da parte dei partiti, del sistema politico, per evitare che i cespugli cresciuti, rigogliosi, in questa stagione, rinsecchiscano oppure divengano arbusti selvatici, incapaci di arricchire il giardino della democrazia."
da www.libertaegiustizia.it
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