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Intervista a Foa.
21.04.2003
Foa: il pacifismo sta salvando l’Occidente
da "l'Unità"

ROMA Ha un privilegio amaro Vittorio Foa. Lo confessa, in un fiato carico di pudore, quando gli chiedo cosa pensa, lui che ha attraversato tutte le guerre e gli orrori crescenti del secolo terribile e sanguinario che abbiamo alle spalle, delle immagini di guerra e morte che arrivano dall’Iraq: "Non vedo quasi più nulla. Ascolto molta radio e i giornali me li leggono. Nella mia disgrazia, ho una piccola fortuna: non posso vedere la televisione. Ma quelle scene me le immagino e mi fanno soffrire", dice abbassando ancor di più la voce. Foa non vuol parlare della cronaca della guerra. Non vuole neanche usare la memoria, come fosse convinto che a un uomo che da anni ha superato i novanta resti solo l’orizzonte del futuro, l’unica dimensione che lo interessa. "Perché - mi spiega - è del futuro che parla la guerra. Questa è una guerra che dura solo da pochi giorni e ogni giorno è una sorpresa. Dentro ognuna di queste sorprese si dispiegano elementi destinati a durare. Bisogna cercare di capire quali sono i tempi lunghi. Prendiamo, per esempio, un dato clamoroso: la capacità di resistenza dell’Iraq. E’ un fenomeno prevalentemente inatteso perché era molto diffusa l’idea che la guerra sarebbe stata molto breve. Invece, non lo è. Questa capacità di resistenza mette in discussione molte cose del passato, non è solo un dato tecnico o militare come si cerca di insinuare.


Cioè?


Intanto, dimostra che la democrazia non si esporta con le armi. Il problema di portare la democrazia altrove è un problema di lenta elaborazione e, in primo luogo, si deve dare l’esempio. L’esempio è una cosa di cui la politica si è dimenticata. La politica, in generale, non conosce più la categoria dell’esempio (ma questo - aggiunge - non fa parte dell’intervista). La politica è ridotta a frasi molto rapide e immediate. L’esempio invece richiede tempi lunghi. Ora se ci si pensa bene, noi (non solo gli americani), loro, direi, in modo clamoroso e arrogante), anche noi europei, abbiamo sempre pensato ai paesi non democratici, dove ci sono autorità repressive, come a paesi che in fondo erano democratici quando ci faceva comodo. Se un paese era buono con noi era democratico. Stiamo comprendendo che l’errore di tutto il mondo occidentale nei confronti di quei paesi sta proprio nell’averli usati e nel non aver pensato che i mezzi molto ingenti che ha l’Occidente potevano essere usati in modo diverso, non soltanto quando ci fa comodo, per propagare la volontà di una convivenza democratica. Quando parli con intellettuali arabi loro ti dicono: ma voi cosa avete fatto per aiutarci nella ricerca della democrazia? E sei costretto al silenzio.


Perché collega queste riflessioni alla resistenza irachena?


Perché dimostra i nostri limiti. Non solo quelli americani. Se ci si pensa bene l’arroganza americana, quasi spietata, così irritante, è in fondo e per tanti aspetti figlia del nostro passato, della vecchia Europa. C’è in quell’arroganza l’eredità del vecchio colonialismo e del vecchio neocolonialismo di matrice europea.


Mi sta dicendo che, tutto sommato, nonostante il carattere sanguinario e feroce del regime di Saddam, gli iracheni difendono la loro terra?


Ma certo. Noi non l’abbiamo capito e non l’hanno capito neanche i sociologi americani che vanno per la maggiore, ma c’è anche un nazionalismo tribale. Il nazionalismo è una malattia profonda che si trova sempre e dappertutto. L’Iraq non è un paese fondamentalista. E’ nazionalista. E’ stato trattato come una cosa da niente, invece il nazionalismo è diffuso, loro sono questo. In più, c’era l’orrore sanguinario del regime. Io resto dell’idea che Saddam è meglio cacciarlo. Ma dobbiamo renderci conto anche delle responsabilità nostre nella creazione di quel mondo. Lei prima ha detto che la guerra sta rivelando aspetti destinati a stabilizzarsi, con cui dovremo fare i conti a lungo. Intanto, il pacifismo. Nella sua grande o ndata - che ha un carattere straordinario, planetario, sia pure con caratterizzazioni diverse - c’è una cosa molto importante: la dimostrazione al mondo arabo, al mondo mussulmano, a tutto il mondo, che la guerra non è una guerra di religione. La guerra, dimostra il movimento pacifista, è fatta da una parte, solo da una parte, dell’Occidente. Il pericolo mortale era - e per alcuni aspetti non è ancora scomparso - che la guerra apparisse come guerra dell’Occidente contro l’Oriente. Una guerra di religione, uno scontro di civiltà.


Quindi, per lei il movimento pacifista va oltre e molto al di là della pressione contro la guerra?


Sì, mi pare che l’unico ad avere detto questa cosa sia stato il ministro degli esteri tedesco. Ha detto: noi perlomeno cerchiamo di dimostrare che non è l’Occidente che fa la guerra all’Oriente. Dobbiamo difendere questa verità. Lei rovescia la scacchiera, Foa. Molti sostengono che i pacifisti fanno il gioco di Saddam mentre lei dice che per fortuna del mondo ci sono loro che sono riusciti a contenere gli errori drammatici di Bush.


E’ quel che pensa?


Mi pare innegabile. E’ l’esito più importante del pacifismo, grazie al suo carattere universale e anche grazie alla forza delle chiese, a partire da quella di Roma e dal Papa. Il pacifismo ha aiutato a smussare un pericolo mortale per il mondo. Si ricorda Berlusconi che disse che lì c’era uno scontro tra civiltà? Ecco, questo dà il senso del baratro e della leggerezza terribile del linguaggio berlusconiano. Ma lui ripeteva una cosa che altri vorrebbero imporci. Il pacifismo, però, ha al suo interno spinte diverse. Si può essere per la pace in modo diverso. Lo stiamo sperimentando. Si può volere la pace dicendo: io non voglio far la guerra. E’ un modo semplice e chiaro che vedo molto diffuso tra giovani e giovanissimi. In un’altra occasione ho detto, proprio a lei, che è la voglia di un cielo pulito, senza armi mortali, con la possibilità di sviluppare la propria vita in rapporto col mondo. C’è anche un pacifismo diverso che non dice semplicemente: io non devo fare la guerra. Dice: devo fare delle cose per prevenire la guerra. E per prevenirla ci vuole un interventismo attivissimo. Ci sono mille cose da fare per prevenire la guerra, per bloccare la sua possibilità. Altro che non fare, il problema è fare.


Per esempio?


Qui il discorso si articola e ci porta a vedere il bisogno di istituzioni e di garanzie. Nel movimento della pace c’è stata un’altra cosa di eccezionale rilievo: l’idea della salvezza dell’Onu. Che però è stato sconfitto. Sì, abbiamo perduto la battaglia degli ispettori. Bush voleva la guerra e la sta facendo. Però per fortuna l’Onu ha detto di no. Se avesse detto di sì sarebbe finito tutto e sarebbe cambiato in peggio il futuro del mondo. Certo, ora è evidente che l’Onu è tutto da riformare, è tutto da rivedere, ma l’Onu s’è salvato. Bisognerà ripartire da lì. E’ una cosa di estrema importanza. E c’è un altro punto importante in qualche modo figlio del movimento pacifista mondiale.


Quale, Foa?


La rivalutazione dell’elemento umanitario. Ho visto molte guerre nella mia vita. Certo, c’erano leggi e regole anche nelle altre, ma sempre poco osservate. La mentalità dominante era questa: quando si fa la guerra bisogna vincerla, anche dando poco peso alle vittime. Ora c’è qualcosa di diverso. Comincia a venir fuori l’idea - che per il momento gli americani non sembrano accettare, ma che è un punto su cui avverrà lo scontro anche al loro interno - che la responsabilità delle vittime è anche di chi fa la guerra. Chi fa la guerra deve fin da principio pensare alle vittime. Non ci si può pensare dopo, ci si deve pensare prima. Su questo punto l’America è molto esposta. Il pericolo che sembra venire avanti è questo: l’America per vincere la guerra deve fare delle cose inaccettabili. Deve ammazzare senza limiti, senza preoccuparsi. Secondo me, per questo, dentro la stessa coscienza americana può nascere ciò che può fermare la guerra e le guerre. Dico, può. Il punto è questo: se è difficile vincere con mezzi norma li e si deve passare a forme di strage è possibile che qualcosa accada. Stanno emergendo le prime difficoltà, sia pure nascoste e attenuate, tra Blair e Bush.


E’ l’anticipazione di un possibile attrito tra americani ed europei?


L’attrito è già grossissimo. Il caso di Blair è molto singolare. Impressiona molti il modo fanatico e ingenuo in cui cerca i compromessi. Ha ragione quando chiede di umanizzare la guerra, di mettere l’Onu alla testa della ricostruzione, quando mette in primo piano la pace in Palestina. Però tutte queste cose le perde perché ha fatto la scelta iniziale della guerra. Quando chiede agli americani la pace in Palestina non tiene conto che non è, per ora, nelle mani degli americani perché l’attivismo della destra israeliana è in questo momento inarrestabile. Non a caso Blair ha avuto un’accoglienza freddissima in America. Gli americani, per ora, odiano il multilateralismo.


Non c’è sua intervista in cui lei non trova il modo di ricordare l’importanza, per il mondo ma anche per l’Italia, dell’Europa. Mi pare, Foa, che dalla guerra il suo sogno europeo viene un po’ frantumato.


E’ impossibile che in soli 18 mesi tutto il mondo sia cambiato. Quando ci fu la strage delle Torri gemelle Le Monde uscì con un titolo a piena pagina: "Siamo tutti americani". Diciotto mesi dopo, l’America è quasi isolata. Arroganza, spirito imperiale, rifiuto. Ma quella frase è stata detta, pensata. Voglio ricordare un episodio della mia lontanissima infanzia: nel 1917 l’America entrò nella Grande guerra. Quando arrivò la prima nave in Francia l’ufficiale americano che comandava la divisione scese a terra e disse: "Eccoci, La Fayette". Voleva ricordare che la Francia aveva aiutato la rivoluzione americana. L’unità euroatlantica è una cosa forte, lo era nel 1917 ma anche nel 2001. Bush e la sua arroganza possono creare problemi immensi, può sconfiggerci per qualche tempo ma non può cancellare tutto questo. Il mio futuro vede insieme gli americani e gli europei, insieme per unificare il mondo, cioè per vivere civilmente in tutto il mondo.


Può accadere senza una forte unità europea?


No. Non voglio arrivare alla retorica di chi giura che l’Europa è il futuro del mondo, voglio solo dire che credo nell’Europa e vorrei si unificasse sul piano politico e militare ma non in modo antiamericano. Molti sostengono che chi è contro la guerra è antiamericano.


Non ha paura di quest’accusa?


Ma che vuole! A me non me ne importa niente. Bisogna sforzarsi di battere l’unilateralismo e la guerra preventiva, queste pieghe che portano il sangue che sappiamo. E questo non vuol dire dare agli altri lezioni di verità. Vuol dire mettersi in gioco, come gli altri. Abbiamo tante rigidità nostre da superare. Dobbiamo trovare, insieme agli americani, un modo per andare avanti, tutti. Sono polemico ferocemente contro la filosofia di Bush. Quando penso all’America penso a tante cose brutte ma anche a tantissime cose straordinarie.


E l’Italia? Come appare in questi giorni di guerra?


Mi sembra un paese dove il governo vive sulle bugie. Pensi alla vicenda degli aviatori americani partiti per l’Iraq.


Cosa vuole che faccia il governo?


Si muove per piccoli episodi veramente irrilevanti rispetto al dramma che sta investendo il mondo. La teoria delle guerre preventive sollecita altri paesi ad armarsi fino ai denti, si sentono rumori di bombe atomiche. E’ vero ma penso che verranno anche altre cose. La radicalizzazione della guerra, se gli americani spingono avanti il carattere distruttivo, provoca delle destabilizzazioni profonde anche di carattere sociale e politico, in più parti. Questo potrebbe addirittura innescare modificazioni nel movimento della pace. Ma spero che il pacifismo non prenda esempio da Bush.


In che senso?


Il movimento pacifista non deve pensare alla prevalenza della forza. Bush pensa che la forza possa risolvere i problemi. Non mi pare vero. Il movimento della pace non deve lasciarsi inquinare dalle teorie di Bush.

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