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Invece di discutere il mezzo discutiamo il fine (G. Pasquino) |
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24.10.2003
Alla sinistra serve un'etica della guerra (di Gianfranco Pasquino)
Perché tutte le volte che compare il tema della guerra, di qualsiasi guerra, e continuerà a comparire, la sinistra italiana si divide in una pluralità di posizioni che sembrano, e spesso rimangono, inconciliabili e incomponibili?
Certo, sappiamo che nella sinistra, italiana ma non solo, si trovano i pacifisti senza se e senza ma. Peraltro, nella sinistra italiana quei pacifisti, talvolta di dubbia provenienza, non sono quasi mai disposti a pagare il prezzo del loro pacifismo. In caso di pericolo si fanno e si faranno difendere da altri.
Ci stanno anche gli anti-americani ad oltranza, che non hanno sempre torto, ma che, assumendo una posizione ideologica, non hanno nessuna soluzione pratica e pragmatica di fronte ad aggressioni militari e terroristiche che richiedono una qualche risposta anche militare, armata. Infine, anche nella sinistra che potremmo forse definire di governo, ovvero che almeno è stata al governo, appaiono le differenziazioni, qualche volta capziose, mai da condonare se sono semplicemente dettate dalla ricerca di qualche voto in più, ovvero dal tentativo di creare problemi a quella sinistra che cerchi faticosamente di combinare il minimo ricorso alle armi con il massimo di giustizia sociale e di ordine politico conseguibile. Il problema è, in effetti, proprio quello: non in esclusiva di questa sinistra, con la quale vale dunque la pena di discutere e alla quale bisogna rivolgere domande e inviti.
La sinistra di governo ha, di tanto in tanto, accettato l'inevitabilità di interventi militari. Con D'Alema a capo del governo ha persino riconosciuto che quegli interventi erano importanti per ridefinire una politica della sinistra di fronte a rischi umanitari gravi, uno dei quali è certamente il genocidio.
Esistono, ovviamente, altre fattispecie che possono giustificare la guerra: l'aggressione militare e la conquista di un territorio, la propensione ad utilizzare, se sono state costruite, armi di distruzione di massa; forse anche il dare asilo e aiuto a cospicui gruppi di terroristi.
Non voglio eccedere nell'elenco perché qui sta il primo interrogativo. Non dovrebbe la sinistra italiana misurarsi con quelle che ritiene essere le condizioni che giustifichino un intervento militare? Nessuno auspica un intervento militare autonomo dell'Italia anche se apparirebbe folle non ritenere giustificata una risposta militare difensiva, per quanto improbabile possa sembrare un attacco diretto all'Italia.
Sappiamo, invece, che la Nato impone ai suoi contraenti qualche obbligo di solidarietà armata in caso di attacco ad uno qualsiasi degli Stati-membri. Quale è la posizione della sinistra, di governo, su questo quasi automatismo? Sappiamo anche che nel mondo esistono numerose situazioni di disordine politico, di oppressione manu militari, di ingiustizie sociali che, qualche volta, provocano catastrofi umanitarie. Neppure in questo caso è plausibile ipotizzare un intervento solitario delle Forze armate italiane, ma quale è la posizione da argomentare e da sostenere se l'intervento armato è deciso dall'Onu? E se alle Forze armate italiane viene richiesto di partecipare ad operazioni di peace-keeping?
La sinistra di governo, non senza qualche maldipancia, ha risposto positivamente; ma i maldipancia ne incrinano e ne offuscano l'immagine di una sinistra responsabile che, accettati gli impegni internazionali, nella Nato e nell'Onu, li rispetta rigorosamente, convintamente, efficacemente. Invece, sembra che il dibattito sull'uso delle armi, sulla guerra, nelle sue varie modalità moderne, debba ricominciare da capo, prima con le accuse reciproche, dei buoni non-interventisti ai cattivi bellicisti, poi con recriminazioni, mai con riferimento a principi acquisiti e consolidati. Verrebbe voglia di dire: «Basta, fermi tutti, cominciamo un dibattito vero sulla guerra, quali guerre? e sulla pace, quale pace? e cerchiamo di definire principi rispetto ai quali orienteremo i nostri comportamenti». Per evitare sterili contrapposizioni nella vasta galassia della sinistra, spesso paralizzanti, mai produttive, per lo più controproducenti, bisognerebbe, bisognerà organizzare sul tema un vero e proprio Forum, certamente utile, e poi, definiti i termini del problema e i limiti delle soluzioni, procedere ad un confronto di massa e ad una pedagogia a tutto campo. Chi non combatte le guerre umanitarie non è un pacifista; è uno che non ha a cuore le esigenze degli oppressi e finisce per dare l'aiuto di Ponzio Pilato agli oppressori. Chi non partecipa ad azioni umanitarie, nella molteplicità di forme in cui sono possibili, comprese quelle di peace-making armato, non può appellarsi a principi superiori di difesa degli uomini e della loro dignità . Se queste affermazioni non sono corrette, discutiamole nel merito. Poi, raggiunta una posizione condivisa, manteniamoci fedeli a quella posizione e leali, questa volta davvero senza se e senza ma.
da 'Il Riformista' del 22 ottobre 2003
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