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La destra è alle corde, basta polemiche a sinistra
24.10.2003

Intervista a Massimo D'Alema
ROMA - Parte con uno sfogo, Massimo D’Alema, amareggiato più che sconcertato dalle ultime polemiche, sia sul fronte esterno, con la maggioranza del governo, sia su quello interno dell’opposizione di centrosinistra: «Stiamo rischiando un dibattito surreale. Passi per il centrodestra: versa in una condizione così penosa da aggrapparsi a tutto pur di fare un po’ di propaganda...». Ma per il centrosinistra i toni si fanno talmente accorati da animare un vero e proprio appello alla «responsabilità» e alla «credibilità di una classe dirigente alternativa». Tutto comincia con la risoluzione dell’Onu sull’Iraq. «Proviamo a sprovincializzare?», fa D’Alema, digitando sul computer. Dalla stampante escono un paio di fogli, che il presidente dei Ds comincia a leggere ad alta voce. È un articolo del «Village voice», che si richiama alla parte più radicale del Partito democratico americano.

D’Alema, che ha a che fare con l’Italia?
«Senta questo passaggio, dove si richiama un discorso televisivo di Bush sull’intervento militare in Iraq e si commenta: “Sarebbe bello farlo rivedere adesso che Bush è inginocchiato ai piedi delle Nazioni Unite per chiedere di essere aiutato dopo mesi e mesi di insolenze contro l’Onu”».

Capisco: potrebbe valere anche per Berlusconi, visto che il premier - per prendere subito il primo corno della polemica - sostiene di aver avuto ragione dall’Onu sull’invio di un contingente militare italiano in Iraq?
«Quell’articolo di battaglia politica coglie il punto: la risoluzione dell’Onu segna il fallimento tanto dell’unilateralismo americano quanto dell’idea che si potesse fare a meno dell’Onu. Ma se gli americani sono stati costretti a ricercare un compromesso per avere la copertura delle Nazioni Unite nell’uscita dalla trappola in cui si sono cacciati, mi pare evidente che non possano vantare alcun successo quei paesi che, come l’Italia, si sono accodati agli americani mandando in Iraq i loro soldati senza l’avallo dell’Onu».

Però lei per primo ha definito l’intervento dell’Onu di «svolta». Non si deve essere conseguenti?
«Certo. La risoluzione non recupera solo il ruolo dell’Onu ma apre una nuova prospettiva per la transizione verso l’autogoverno iracheno. È in questo nuovo quadro che il nostro paese deve attentamente valutare quale contributo dare. Ricordo la battuta di un esponente dell’opposizione a Saddam, quando sono stato in Iraq con una delegazione dell’Internazionale socialista: “Gli americani ci hanno liberato da Saddam, aiutateci a liberarci dagli americani, perché non vogliamo anche la guerra civile”. Forse potremmo anche aiutare a liberare gli americani dal problema. Non è interesse di nessuno, checché si pensi dell’intervento militare in Iraq, che quel paese precipiti nel caos».

Teme che si riproducano vecchi contrasti politici?
«Sarebbe sconcertante se l’indubbia novità della risoluzione dell’Onu, anziché offrire l’occasione per ridefinire e rilanciare il profilo internazionale dell’Italia, diventasse il pretesto per discussioni di retroguardia, se non strumentali, di politica interna. Passi per l’uso distorsivo da parte di una maggioranza che è quel che è: farebbe bene, semmai, a riflettere sul vuoto della politica estera italiana, per giunta nel momento in cui esercita la presidenza di turno dell’Unione europea. Che non si è vista nemmeno con la missione di grande dialogo che i ministri degli Esteri della Gran Bretagna, della Francia e della Germania hanno appena compiuto in Iran. La presidenza italiana si è limitata a esprimere viva soddisfazione. È importante, ma purtroppo è solo un commento».

Passiamo al centrosinistra?
«Ecco, credo che l’opposizione debba trovare un modo diverso, costruttivo, di affrontare questioni così cruciali. Cercando il confronto anziché autointrappolarsi nella distinzione, per dimostrare che si è più a sinistra o più riformista. Tutti dovremmo avere presente che l’elettorato del centrosinistra vuole coesione e unità: forse con sortite del genere si guadagna un po’ di visibilità, sicuramente non si procurano voti. Piuttosto, si rischia di perderne».

Entriamo nel merito della disputa, allora. L’Italia ha già proprie truppe in Iraq. E una parte dell’opposizione, da Rifondazione a pezzi dell’Ulivo come i Verdi e i comunisti italiani, è decisa a presentare una mozione per il ritiro immediato del nostro contingente italiano. Lo ritiene possibile?
«Francamente, non mi pare realistico che, dopo aver criticato e votato contro l’invio dei nostri soldati al di fuori dell’autorizzazione dell’Onu, se ne chieda il ritiro immediato all’indomani della risoluzione delle Nazione Unite. Semmai, dobbiamo far riferimento alle motivazione di quel voto nel valutare come sostenere il nuovo processo di ricostruzione e di consolidamento democratico dell’Iraq».

E dell’ipotesi avanzata da Francesco Rutelli di una mozione che ridefinisca in termini nuovi la missione italiana in Iraq?
«Metodologicamente la proposta è giusta: siamo, in effetti, in un nuovo scenario e si deve pensare in termini nuovi, per cominciare non soltanto sul piano militare, l’impegno italiano in Iraq. Ma non è irrilevante, ai fini della valutazione di questo impegno, capire come si evolve il compromesso individuato all’Onu: entro il 15 dicembre gli americani dovranno pronunciarsi sul passaggio dei poteri e, quindi, sulla prospettiva del regime di occupazione militare. Non si capirebbe, quindi, il senso di far precipitare un dibattito parlamentare sul contributo italiano che prescinde da come si muoveranno gli attori di questo nuovo scenario. Compresa l’Europa, che deve e può esserci. E sarebbe ora che la presidenza italiana dell’Unione cercasse di concordare un impegno comune».

Non si rischia di attendere la scadenza dell’attuale missione italiana a braccia conserte?
«Al contrario, dobbiamo riuscire ad aprire una discussione seria. E ad allargarla alla strategia che è stata seguita dall’11 settembre del 2001 nella lotta al fondamentalismo terrorista. È evidente, ormai, il fallimento della scelta di usare indiscriminatamente la forza senza la politica. L’idea di opporre la guerra preventiva, la repressione come in Cecenia, la violazione dei diritti umani come a Guantanamo, l’occupazione militare come in Palestina, non ha finito soltanto per lacerare un tessuto di legalità internazionale, ma ha costretto le nazioni democratiche a rinnegare nei fatti i valori nel nome dei quali si deve combattere il terrorismo. Ma anziché contenerla, si è avuta l’espansione della minaccia terroristica. È una spirale perversa: la violenza genera odio e sentimenti di vendetta. Il vero tema è questo: far sì che la risoluzione dell’Onu rimetta sul binario giusto una lotta al terrorismo che coinvolga lo stesso mondo islamico, perché non più in nome della difesa dell’Occidente bensì di un ordine internazionale più giusto, e quindi rispettoso dei diritti di tutti i popoli».

Ma si può considerare il sussulto di conflittualità di questi giorni nel centrosinistra soltanto come un incidente lungo un percorso che pure avrebbe dovuto essere unitario?
«Non se ne avvertiva la necessità. Facciamo almeno che serva a smettere di farci del male. E a fare chiarezza sul percorso che non ha bisogno del condizionale: deve essere unitario...».

A sentire Pierluigi Castagnetti, però, qualcosa si è incrinato dopo quel che ha detto Fassino a proposito della leadership, che oggi è di Prodi ma domani potrebbe essere dei Ds. Allora?
«Se si chiede, al segretario dei Ds se il sostegno alla candidatura di Prodi significhi in linea di principio la rinuncia a una candidatura della sinistra, cosa deve rispondere? È ovvio che dica: oggi è Prodi il leader naturale, domani la coalizione potrebbe riconoscersi in una personalità della sinistra. Ma se si cancella la domanda e si isola la risposta, si dà luogo a una montatura mediatica che può solo alimentare una campagna di sospetti. Ingiusta nei confronti di una persona, come Fassino, notoriamente limpida e seria. E serio è anche il nostro partito: abbiamo dichiarato convintamente e apertamente il sostegno alla candidatura di Romano Prodi, quindi la discussione è chiusa. L’abbiamo già fatta, raccogliendo responsabilmente la proposta di Prodi della lista unitaria per le europee, pure scontando dissensi nelle nostre file: potevamo vivere tranquilli, coprirci dietro l’indisponibilità di questo o quell’alleato, invece abbiamo deciso di spenderci tutte le nostre energie, convocato l’assemblea congressuale, indetto un referendum. È ragionevole che un partito che avesse in mente di puntare su un altro candidato decidesse di puntare su quel che ha proposto Romano Prodi? È ora di finirla con questi veleni. Basta, non c’è nessuna dietrologia da fare, nessun lavorio dietro le quinte da imbastire, nessuna voce da inseguire. Da ora e fino alle elezioni politiche con Prodi».

Scusi, ma non era stato proprio lei, da segretario dei Ds, a non voler passare per «figlio di un Dio minore»?
«Sì, e con ciò?».

I Ds sono il maggior partito dell’opposizione: come escludere che gli alleati temano la sua egemonia e che lo stesso corpo del partito avverta una sorta di complesso per la leadership?
«La questione è risolta ogni volta che noi siamo più forti e con noi è più forte la coalizione. Non abbiamo pretese egemoniche nel mettere questa forza al servizio del centrosinistra, convinti come siamo che è la coalizione il soggetto attivo della sfida alternativa. Siamo già tornati a vincerla, nei grandi Comuni, nelle Province, nelle Regioni, anche grazie a candidati di prima fila dei Ds: quale complesso, allora, potremmo avere? La competizione, nel maggioritario, non è a chi è più forte nel centrosinistra, bensì a battere il centrodestra. Siamo tutti parte della stessa squadra, poi io che sono un tifoso romanista posso essere contento se il gol lo fa Totti o Emerson, ma dal punto di vista del campionato politico quel che conta è se vince la nostra o l’altra squadra. Ergo: o vinciamo insieme o perdiamo insieme».

A maggior ragione, con la lista unitaria?
«Abbiamo bisogno di una politica unitaria a tutti i livelli della coalizione. La lista unitaria non è la lista unica del centrosinistra, serve a raccogliere le forze disponibili attorno a un progetto riformista. Però il centrosinistra è una realtà più ampia, e a tutte le forze politiche che concorrono a formare la coalizione va assicurata pari dignità...».

Lo direbbe anche dello Sdi, nel caso decidesse di convergere con i vari spezzoni della diaspora del Psi in una lista socialista anziché con i Ds e la Margherita nella lista riformista?
«Non ho nulla contro questo ritrovarsi di forze di ispirazione socialista, se avviene nella chiarezza politica. A cominciare da quella che un’area socialista non si ritrovi nella indifferenza degli schieramenti, tra la sinistra e la destra, ma sia piena espressione della tradizione riformista del socialismo europeo. E proprio perché considero questo il ruolo naturale dei socialisti, chiedo sommessamente a quanti avvertono l’assillo della ricomposizione se non sia più giusto che la cultura socialista abbia la sua naturale collocazione nella prospettiva di una più larga e coerente forza del riformismo italiano».

Stava dicendo che il processo politico non si esaurisce con la lista unitaria per le europee...
«Appunto, scontiamo, anche per ragioni oggettive, una discussione tutta chiusa nei nostri partiti, e stentiamo a coinvolgere movimenti, forze della società civile, personalità interessate a una visione comune nell’affrontare le sfide che incalzano. È a questa ispirazione unitaria che dobbiamo legare metodi e contenuti, se non immaginiamo la lista unitaria come un triciclo che accorpa tre simboli, ma una operazione politica strategica. Che punta ad una alleanza di centrosinistra capace di andare oltre i confini dell’Ulivo, passando attraverso un patto organico con Rifondazione comunista e un più solido rapporto con le tante realtà civili che hanno concorso significativamente al successo elettorale alle amministrative. Ecco, se pure le europee eccitano i sentimenti proporzionalisti, non dimentichiamo però che questa scadenza arriverà al culmine di una fase elettorale in cui si dovranno eleggere 4.900 sindaci e 63 presidenti di provincia, E lì si vince se il centrosinistra è unito e coeso attorno a un progetto alternativo a questa destra».

A proposito, a destra s’odono grida di guerra tra Fini e Bossi, ma anche invocazioni a compattare una lista centrista per le europee, in concorrenza aperta con quella riformista. È parte della sfida?
«Certo è un tentativo di arginare la crisi determinata dal fallimento dell’azione di governo e dall’esplodere dei contrasti di visione politica tra l’asse Bossi-Tremonti, fin qui sostenuto da Berlusconi, e l’emergente binomio Fini-Follini. Non saprei dire se e come riusciranno a ricomporre questi dissidi. So, però, che questa crisi del centrodestra deve spingere il centrosinistra a un più alto grado ci coesione, a essere pronto in ogni momento a fronteggiare le convulsioni di questo quadro politico e istituzionale. Al rischio che la frattura tra i cittadini e le istituzioni diventi irreparabile dobbiamo saper opporre l’opportunità del cambiamento. E sapremo esprimerla solo se risultiamo affidabili come forza di governo già dall’opposizione».

Vecchia questione: non basta dire di no. Cosa dire, ad esempio, a chi venerdì sciopera contro le pensioni?
«Attenzione, questo sciopero generale non è soltanto contro. È generato dall’assenza di una politica di sviluppo, dai tagli alla ricerca scientifica, alla scuola, all’università, al sistema delle autonomie, alla sanità, a servizi essenziali e diritti fondamentali dei cittadini. Ma è uno sciopero per lo sviluppo. E sullo sviluppo ci giochiamo la nostra credibilità di classe dirigente alternativa».

A proposito, cos’è questa storia raccontata «Il Foglio» che il centrosinistra è talmente «sbandato» che per evitare «guai peggiori» potrebbe tenersi qualcosa di quel che intanto sta passando questo convento?
«Siamo talmente sbandati da preparare l’agenda dei primi cento giorni per quando torneremo al governo del paese, per evitare di fare come il centrodestra che, preso dalla brutalità ideologica, ha passato due anni e mezzo a smantellare tutte le riforme del centrosinistra. È a questo danno per il paese che dobbiamo porre rimedio, verificando con realismo cosa è d’ostacolo e cosa no al cambiamento di rotta. Perché cambiare si deve. E si può».

 

dal sito www.dsonline.it


 

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