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L'Unità dei riformisti: il confronto delle idee
1.11.2003
L'intervento di Giovanna Melandri al Convegno organizzato dall'associazione "Idee in Europa" e tenutosi a Roma il 29 Ottobre 2003
Intanto voglio ringraziare Goffredo Bettini perché la sua relazione ci permette di rimettere piedi a terra in una discussione disordinata che ha disorientato molti.
Ripartiamo dal confronto delle idee. Alcuni giornali hanno dato questa mattina di questo incontro una spiegazione grottesca. Rifiuto l’idea che oggi qui si stia formando una corrente demo-antropologica dell’Ulivo.
Ultimamente si sono appiccicate un pò troppe etichette su barattoli vuoti.
“Dimmi cosa pensi e ti dirò chi sei” è un vecchio adagio utile a ricordarci che non si può essere riformisti per autocertificazione. Oggi riformisti sono un pò tutti.
Astrattamente e un po’ furbescamente. Spesso poi si scrive riformisti e si legge moderati .
Nomina sunt – almeno mi pare - consequentia rerum.
Il problema che abbiamo tutti è come battere in Italia una destra illiberale e inetta, come vincere contro Berlusconi sul piano di una alternatività programmatica e intanto però non perdere il respiro strategico, la visione, di un centrosinistra che non vuole implodere nel confronto quotidiano con i Bondi e gli Schifani, ma che vuole ritrovare una sua funzione mondiale, internazionale.
L’Italia ha conosciuto negli ultimi due anni e un tentativo costante di devastazione dell’economia, della giustizia, degli equilibri istituzionali. Perfino del patto fiscale che lega i cittadini allo Stato. Il condonismo fatto legge.
Perfino la disponibilità collettiva del patrimonio culturale è stata costantemente messa sotto attacco da due anni a questa parte. Ancora oggi con il silenzio-assenso previsto dalla Finanziaria per la vendita dei beni culturali.
Ecco, io partirei da qui. Dalla nostra capacità di esprimere una netta alternatività programmatica al la destra di governo. Partirei da qui. Per incrementare e non per ridurre le libertà individuali, quella libertà che Berlusconi voleva garantire con meno tasse, meno regole, meno stato, oggi c’è bisogno, al contrario, di più spazio pubblico, di più politiche pubbliche. Non “meno tasse per tutti” ma tasse in cambio di servizi e diritti.
Il centrosinistra deve ricostruire la sua uni tarietà innanzitutto riaffermando la centralità di tutto ciò che è stato preso di mira dal Governo Berlusconi.
La centralità di un’etica pubblica che rifugge dai condoni e realizza un modello di Welfare che offre servizi universali ed efficienti a tutti i cittadini.
La centralità di modelli di sviluppo fondati non sull’ulteriore sfruttamento della precarietà dei lavoratori, dell’ambiente e delle risorse naturali ma sull’investimento nei processi di formazione e di crescita della qualità competitiva dei nostri prodotti.
La centralità di un modello istituzionale fondato sull’equilibrio dei tre poteri e sulla coesione nazionale.
Ecco perché non mi spaventa affatto dire che il programma delle cose che i riformisti dell’Ulivo dovranno fare nei primi 100 giorni dovrà necessariamente contenere un’analisi accurata ed un conseguente azzeramento di quei provvedimenti del Governo Berlusconi – penso ad esempio alla delega fiscale, quella ambientale, i provvedimenti sul lavoro, i condoni, i provvedimenti sulla giustizia, la scuola - che hanno impoverito il nostro Paese e la sua civiltà giuridica. Salverei la patente a punti ma poco altro di questi primi anni di governo.
Insomma, meno Berlusconi per tutti. E non per consumare vendette ma perché alternative con le ricette della destra sono le soluzioni che dobbiamo proporre.
Il punto tra di noi, almeno tra di noi, non è dividersi tra riformisti doc a denominazione controllata, magari controllata con i paradigmi di un mondo che non c’è più, sotto molti cieli fa direi, e riformisti radicali. Io respingo questa classificazione.
Così come penso che la prospettiva dell’unità dei riformisti oggi non stia nel legame con la storia di un paese e di un mondo che non c’è più. Ho ascoltato con interesse l’analisi storica fatta da Bettini sul perché in questo paese non si è mai formato un grande partito riformista.
Il discorso mi porterebbe lontano. Mi porterebbe a difendere la modernità intransigente di Enrico Berlinguer e la lucidità di un’analisi non ancora superata dei limiti sociali e naturali dell’economia dei consumi. E mi porterebbe a ritrovare nella dottrina sociale della chiesa molti di quegli spunti che oggi ispirano pezzi consistenti del movimento new global, quei cittadini che introducono nel linguaggio della politica anche i loro stili di vita, le loro scelte di consumo, l’interrogativo sulla loro funzione individuale.
Ecco perché quando penso al mare in cui fare navigare la prospettiva dell’unità dei riformisti penso ad un mare più largo che a quello che contiene gli eredi del PCI, della DC e del PSI.
Condivido molte delle cose che Bettini ha detto sull’Italia del passato. Ma il punto è che nessuna delle grandi famiglie politiche del ‘900 sa dare da sola risposte convincenti alle nuove sfide della globalizzazione.
Vorrei parlare del mondo di oggi, tanto diverso da quello del compromesso storico. Quello post- guerra fredda dove la disfatta dei totalitarismi e del comunismo ha lasciato il campo aperto ad un capitalismo selvaggio, aperto in uscita e chiuso in entrata. Che entra in crisi perché esclude miliardi di persone.
E vorrei dire, come ricordava sempre Federico Caffé, che il paradigma neoliberista si è inoculato in tutte le culture politiche figlie del ‘900.
Il punto, dunque, è se siamo capaci tutti insieme di formulare la nostra proposta politica difronte ai problemi radicali della globalizzazione.
L’immensa sproporzione nella distribuzione della ricchezza nel mondo.
L’emersione di un terrorismo fanatico che cresce su povertà economiche e culturali.
La mancanza di trasparenza di una economia finanziarizzata che non difende i piccoli risparmiatori e che poggia su quel conflitto epidemico di cui ha scritto Guido Rossi, non un no-global, in un bel libro.
La privatizzazione delle risorse naturali a cominciare dall’acqua, l’assenza di una politica globale per la tutela della biosfera, i diritti umani, universalistici, per tutti.
La destra neoconservatrice ce l’ha una ricetta. Brutale, ma ce l’ha. Per me il cantiere dei riformisti ha senso solo se cerchiamo la ricetta alternativa.
Non c’è un’istanza radicale da far convivere con un’altra più moderata. Vi è piuttosto una maggiore criticità da affermare di fronte alle tendenze disegualitarie in atto, al falso in bilancio come regola dei mercati finanziari.
Di fronte alla radicalità della destra neoconservatrice, neoliberista e populista che non solo in Italia ma nel mondo sbatte i pugni, straccia i trattati e cancella i diritti la nostra risposta non può essere costruita con lo sguardo ad un mondo che non c’è più e con l’attenzione esclusiva alle culture politiche che oggi ritroviamo nei partiti.
Stiamo misurandoci, in Italia e nel mondo, con il problema della concentrazione massiccia, inaccettabile del potere. Potere economico, mediatico, politico, militare. E’ un tabù per un riformista parlare di potere?
Una concentrazione che logora, paralizzandole, le istituzioni internazionali. Una concentrazione che annulla le libertà di accesso al mercato. Una concentrazione della ricchezza in un emisfero del mondo, con una redistribuzione regressiva del reddito che fa parlare uno studioso come Krugman di “scomparsa dei ceti medi”. Una concentrazione mediatica che restringe lo spettro delle idee in campo.
E’ impossibile disfare l’unificazione del pianeta. Come scrive Bauman la sola scelta che si ha nel mondo globalizzato è nuotare insieme o annegare insieme. E, dunque, il problema della democrazia, della sua debolezza e delle nuove forme di concentrazione del potere che la indeboliscono sono un problema globale.
La destra nel mondo, coerentemente con quanto teorizzava venti anni fa quando chiedeva di non frapporre ostacoli, regole allo sviluppo del capitalismo, oggi teorizza la necessità di favorire questa ulteriore concentrazione , a difesa di un modello che è in crisi che aumenta l’area degli esclusi e restringe ulteriormente i diritti ed allarga l’area dei privilegi.
La cultura neoconservatrice dei Kagan, dei Rumsfeld, dei Wolfowitz è la logica continuazione della svolta liberista di Reagan.
La sinistra che ha resistito alle tempeste della storia non ha ripensato una teoria del potere all’altezza delle disuguaglianze di oggi. Questo è il punto. Nessuna delle grandi famiglie politiche del novecento ha saputo dare risposte convincenti alle nuove sfide della globalizzazione. Tant’è che in calce alla decisione che sostenne la guerra in Iraq vi sono partiti che in Europa siedono nel Ppe e partiti che siedono nel Pse.
La crisi del multilateralismo, infatti, non comincia con Bush e con la guerra all’Iraq. Comincia almeno un decennio fa, quando l’Onu fallisce nell’imporre ai paesi più ricchi del mondo vincoli esterni ai loro modelli di sviluppo.
Erano i tempi dell’amministrazione Clinton. Erano i tempi in cui si tentava la strada della terza via, della progressive governance. La strada era giusta. Ma, come ha scritto Stiglitz, ex presidente della Banca mondiale, “non ce l’abbiamo fatta”. E’ il decennio perduto descritto da Michail Gorbaciov.
La vita, anche quella della politica è fatta di buone intenzione e grandi progetti. Ma, come quella degli uomini, è fatta anche di sconfitte e di errori. Il tentativo era generoso ma culturalmente fragile. Non si spezza un ciclone, il ciclone del modello neoliberista, con una buona intenzione.
Ecco perché oggi nel mondo la sinistra deve guardare con attenzione allo sviluppo ed alla crescita di interlocutori nuovi. Penso ai Paesi emergenti al gruppo dei 23 che ripropongono il tema della ripresa e della rinascita del multilateralismo, dello sganciamento della politica internazionale dai diktat non trattabili del Wto, del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale.
Riprendiamoci, dunque, il diritto di pensare diversamente. Lo disse Prodi osservando la nascita di un nuovo soggetto politico. Quella vastissima opinione pubblica che non ha accettato il diritto della forza contro la forza del diritto.
Il pensiero unico, disse Prodi, è finito.
Ripensiamo la guerra. La guerra in Iraq è stata uno spartiacque. Unilaterale, preventiva, illegittima. Strumento per affermare un nuovo ordine nelle relazioni tra gli stati. E oggi l’unica via d’uscita è affidare il comando pieno della presenza militare alle Nazioni Unite. Prima di aver prodotto il capolavoro di una saldatura definitiva tra la resistenza irachene e il terrorismo islamico.
Usciamo dai tatticismi e guardiamo la risoluzione dell’ONU 1511 per quello che è. Non è una svolta della crisi irachena, (ancora oggi cì stato l’inferno a Bagdad ed in Iraq) né è un testo che lascia del tutto immutato il quadro. E’ un colpo contro la pretesa unilaterale dell’amministrazione Bush, un aumento di responsabilizzazione dell’Onu ma da essa non si può desumere nessun obbligo a partecipare ad una forza multilaterale sotto il comando americano.
Ripensiamo l’Europa. Ripensiamola come uno snodo di un mondo multipolare, come un polo della rete. Ma anche in questo caso parliamo di contenuti.
Di un’Europa che sappia imporre un suo punto di vista. Rispettoso della pace, dell’ambiente, dei diritti. Non l’Europa di Cancun. Prona ad un modello protezionistico delle relazioni commerciali, incapace di rispondere a quei paesi emergenti che non chiedono mance ma pari dignità nel mercato internazionale. Sì, il libero mercato, libero e regolato per tutti.
A Cancun era più riformista Pascal Lamy o Lula? Direi, non Lamy.

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Ma torniamo un istante all’Italia. Berlusconi non è una anomalia ma è il prodotto, nella versione made in italy, di questo vento che ha spazzato il mondo.
Il progetto di Berlusconi è chiaro, e in un certo senso coerente con le dottrine neoconservatrici. Di suo ci aggiunge il populismo mediatico, la crassa ignoranza della nostra storia, la paranoia anticomunista, il parcheggiatore Apicella l’alleanza con le forze secessioniste. Capire questo, analizzare in tutta la sua pericolosità le ricette della destra italiana, non è indifferente per capire cosa vuol dire nel 2003 essere riformisti nell’Ulivo.
Il riformismo, si dice spesso, non è la destra della sinistra. Sono totalmente d’accordo. Ma naturalmente non può essere neanche la sinistra della destra. Soprattutto di questa destra.
Il riformismo, si dice altrettanto spesso, fa quotidianamente i conti con gli strumenti concreti per realizzarlo. Non potrei essere più d’accordo. Il riformismo è cultura di governo. Non lasciamoci però ancora paralizzare da antichi timori: è finito il tempo dei prelievi del sangue: la sinistra ha già ampiamente dimostrato di saper essere classe di governo del Paese e lo dimostra ogni giorno nelle città, nelle Province e nelle regioni che amministra. Bene, come ad esempio a Roma.
Tante persone oggi si sentono nuovamente, dopo un lungo ciclo di individualismo, chiamate a partecipare alla vita politica. E’ una nuova domanda politica non convenzionale, non racchiudibile nelle forme organizzate dei partiti e che vuole pesare ed essere ascoltata.
Non è l’antipolitica degli anni novanta, è un fenomeno di rigenerazione della politica.
Li abbiamo capiti questi movimenti? Temo non abbastanza. Sono ancora troppi quelli che a sinistra non vedono l’ora di poter archiviare in fretta ciò che è stato definito con l’espressione che io trovo volgare “il biennio rossiccio” per poter riportare la politica nell’Acquario dei partiti.
Io credo che la sfida del riformismo stia anche qui.
Dobbiamo riaprire una fase costituente, che ha bisogno di molto rispetto, molto popolo, molti contenuti. Fase costituente. Non somma di 3 partiti.
La sfida del riformismo sta anche nell’inventare forme nuove, moderne di partecipazione alla vita pubblica. Non mi convince l’idea di un partito di tre partiti, che lascia alla sua sinistra uno spazio troppo grande. Mi convince l’idea di far ripartire una grande fase costituente, di sperimentare una lista unitaria alle europee e cominciare a lavorare per il soggetto del bipolarismo italiano.
E vorrei che facessimo la fatica di tenerli tutti assieme i riformismi nuovi e vecchi. Quelli del secolo passato e quelli delle culture critiche di questi decenni. Anche quelli che ad alcuni sembrano scomodi. Abbiamo vinto così a Roma, in Friuli, a Trieste.
Vedete, sono tra quelli che ha letto con grande entusiasmo a luglio la proposta di Prodi. Per molte ragioni: è sensato, è logico, infatti, che le forze del centrosinistra possano ritrovarsi in un comune programma per l’Europarlamento, condividendo un’idea unitaria di Europa. Ed insieme di conseguenza presentarsi, per dare forza aggiuntiva alla forza rappresentata da ogni singolo partito. E per rispondere al desiderio di maggiore coesione ed unità del centrosinistra di cui ciascuno in questa sala si sente portatore.
Ma torniamo a Prodi. La sua proposta – lista comune e programma comune per le europee - ha poi innescato immediatamente la proposizione di una, due, tre cinque subordinate, Prima la lista, poi qualcos’altro, poi una cosa diversa ancora fino ad arrivare alla proposizione del triciclo riformista.
Questa rapida sequenza di evoluzioni, tutte interne ad incontri di vertice, vigorosi scambi di strette di mano – quasi sempre maschili, non me ne vogliano gli altri relatori ma è così - ha prodotto diversi effetti, che io giudico negativi. Sono immediatamente scattate le esclusioni e le autoesclusioni, i veti e le scomuniche, fino ad arrivare alla proposizione di un blocco riformista riformista formato dal nocciolo duro del “chi ci sta ci sta” Ds-Margherita-Sdi.
Non apprezzo chi si autoesclude al netto di un confronto programmatico. Ma neanche chi dice no, Di Pietro no. Come se il nostro primo problema fosse Antonio di Pietro e non Melchiorre Cirami
Ma, soprattutto, si è diffusa nell’elettorato di centrosinistra l’amara sensazione che si stesse consumando un’operazione poco partecipata che, in nome di una pur giusta e sentita esigenza unitaria espressa a gran voce da militanti ed elettori, sembrava destinata più a restringere che a far crescere il sentimento di adesione al progetto dell’Ulivo. E’ davvero questo quello che vogliamo?
La sfida e la prospettiva che ancora una volta Romano Prodi ha lanciato è alta e degna e necessità del massimo sforzo da parte di tutti. Uno sforzo in cui anche io mi sento impegnata. Abbiamo di fronte una grande responsabilità; abbiamo in banca l’enorme capitale di fiducia che milioni di italiani oggi affidano al centrosinistra. Dobbiamo tornare a vincere presto e bene per ridare speranza al nostro Paese
Ecco il motivo per il quale io credo sia utile fermarci un istante, eliminare le subordinate che hanno snaturato il progetto iniziale e ripartire da Prodi e dall’Europa, senza tagliar fuori nessuno, senza forzature, procedendo per gradi e stadi successivi. Facendo partire, insomma, un processo inclusivo e non esclusivo che riguardi non solo i partiti ma anche i movimenti, semplici elettori allergici alle tessere di partito
Riaccendiamo i motori di un processo costituente del centrosinistra che abbia la stessa forza di quello che vide nascere l’Ulivo e le sue tesi nel 1996.
Rimettiamo piedi a terra il processo. Facciamolo uscire da una deriva oligarchica. Un processo in cui ciascuno si senta chiamato e non costretto, senza spirito di annessione, senza cancellazione di alcuna identità o matrice storica, politica o culturale. Per tornare a vincere e ridare fiducia e speranza all’Italia.
Perché al ghigno di Berlusconi continuiamo a preferire il sorriso degli italiani.

Un caro saluto
Giovanna Melandri

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