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L’immigrazione è realtà. La società è più avanti della politica
3.11.2003

Colloquio con Aly Baba Faye 

FAYE, la sua nomina a coordinatore nazionale del Forum sull’immigrazione dei DS è di per sé, mi sembra un significativo esempio di integrazione. Intanto ci può raccontare la sua esperienza nel nostro paese?

La mia esperienza è per alcuni versi emblematica perché ha corrisposto con una fase storica per l’Italia: il passaggio da paese di emigrazione a paese di immigrazione. In Italia sono arrivato nei primi anni ’80, quasi "per caso" nel senso che non avevo un progetto migratorio vago e non definito. Attraverso i contatti di una mia cugina (già direttrice del dipartimento di odontologia all’università di Dakar) che aveva rapporti con degli imprenditori bresciani che avevano una scuola per odontotecnici. Stavo ultimando i miei studi alla facoltà delle scienze giuridiche ma nel mio paese con la laurea in giurisprudenza non avrei avuto una collocazione lavorativa certa. Rammento che eravamo negli anni ’80 con l’onda monetarista, l’euforia delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni che si traducevano in piani di aggiustamento strutturale in diversi parti dell’Africa imponevano operazioni di ristrutturazione degli apparati statali. Vi erano in quel periodo 12.000 laureati non collocati di cui il 70% avevano conseguito studi giuridici. Il Governo senegalese cercava di dirottarli nel settore privato con incentivi per la creazione d’impresa. E quando a mia cugina fu offerta, da parte dei suoi amici, la possibilità di due borse di studio, lei mi convinse di cogliere questa opportunità e così accettai di venire in Italia. Arrivato a Brescia mi accorsi che quegli studi non erano per me, decisi ugualmente di rimanere in Italia e iniziò la mia avventura italiana. Mi trasferì a Perugia per imparare la lingua italiana e per sopravivere facevo i classici mille lavoretti. Allora erano tempi difficili, l’Italia non era ancora paese di immigrazione (più immigrati che entrano rispetto a quelli che escono) ci si veniva solo per motivi di studio e per culto salvo in qualche caso il lavoro domestico. La legge non consentiva ad uno straniero di lavorare e di fatto l’unica possibilità di lavoro era nelle famiglie, tra l’altro non regolamentato, e quindi agli studenti stranieri non restava che l’opzione del lavoro sommerso nelle attività stagionali accettando di fare il bracciantato agricolo, le vendemmie, la raccolta di tabacco per qualche settimane o nel settore della ristorazione come lavapiatti e aiuto cuoco. Oltre a questi lavoretti, ho impartito lezioni private di lingue straniere Francese e Inglese, ho venduto enciclopedie e ho lavorato come muratore in qualche cantiere di un mio amico italiano insomma tutto quel che capitava per racimolare qualche soldo per campare, sperando in tempi migliori...

E quanto è durata questa situazione di precarietà?

Nel mentre il mio permesso di soggiorno per motivi di studio stava per scadere arrivò, come una manna dal cielo, la prima legge sull'immigrazione che apriva il mercato del lavoro agli stranieri. Ricordo che la prima regolarizzazione durò più di 2 anni e questo favorì anche l’arrivo di molti immigrati irregolari dalla Francia, dalla Germania ecc ….erano gli anni degli Accordi di Schengen la politica dei visti, il controllo dei flussi. Comunque, l’economia italiana tirava con alti ritmi di crescita. Il monetarismo prevalente in quel periodo favoriva lo sviluppo degli investimenti e di conseguenza si registrava un forte aumento della domanda di lavoro in una situazione di piena occupazione, cosicché il ricorso alla manodopera immigrata diventava imprescindibile. Tutto questo creava le premesse del passaggio dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Il paese aveva raggiunto un saldo migratorio negativo ovvero il fatto che gli ingressi superavano le uscite o meglio l’Italia da paese esportatore diventava importatore di manodopera. Con il varo della legge nel 1986, avevo quindi la possibilità di cercare legalmente un lavoro come molti altri studenti provenienti da vari paesi (Palestina, Iran, Cile, Africa del Nord, Corno d'Africa). Per me si concretizzava la possibilità di rimanere e di progettare il mio futuro.

Da allora per lei iniziava un nuovo percorso?

Certamente per me si apriva una prospettiva nuova e iniziava un percorso completamente diverso. Oltre alla mia situazione personale, avevo deciso di impegnarmi per assistere i miei connazionali nel processo di regolarizzazione. Questo impegno mi portò alla promozione, assieme a qualche connazionale, di un vero movimento di lavoratori senegalesi in Italia. Iniziammo con lo stimolare i ragazzi a creare associazioni nelle aree dove risiedevano. Nel Febbraio del 1988, su iniziativa di 18 associazioni territoriali, creammo un coordinamento nazionale: il CASI (coordinamento Associazioni Senegalesi in Italia) di cui sono stato segretario nazionale. Nel giro di due anni avevamo promosso 42 associazioni su tutto il territorio nazionale. Il CASI divenne poi un punto di riferimento per molte altre comunità e forse la punta di diamante del movimento contro il razzismo e per i diritti degli immigrati che nacque in quegli anni. Eravamo tra i promotori della prima manifestazione contro il razzismo del 7 ottobre 1989 in seguito all’uccisione di Jerry Essan Massolo, un rifugiato sudafricano, nelle campagne di Villa Literno. Poi siamo stati protagonisti nella prima Conferenza Nazionale del Governo italiano sull’immigrazione nel 1990. Abbiamo giocato un ruolo nella regolarizzazione di molti immigrati e abbiamo contribuito a sollevare il dibattito sui temi dei diritti e dell’integrazione degli immigrati nella società italiana. Da questo mio impegno ho incontrato la CGIL (quella di Trentin e di Ottaviano del Turco) che nel frattempo aveva preso coscienza dell'esistenza del problema e stava predisponendo una strategia di intervento. Vi era l’esigenza di promuovere una cultura sindacale e dei diritti fra gli immigrati, mettendo in relazione le problematiche del lavoro italiano con quelle dell'immigrazione; La CGIL mi scelse come suo collaboratore per creare una struttura, definirne i contorni organizzativi e gestirne il funzionamento. Da lì nacque il Coordinamento dei lavoratori e delle lavoratrici immigrati della CGIL, una struttura nazionale con proprie antenne sul territorio riconosciuta con una norma statutaria. Nel ‘91 dopo un lavoro capillare sul territorio e la cooptazione di attivisti, si tenne l’assemblea dei delegati immigrati che mi elesse come coordinatore nazionale. E’ un incarico che ho ricoperto per 7 anni per poi passare alla Federazione dei lavoratori dell’agro-alimentare come sindacalista "tout court". Già nel ‘91 fui eletto nel direttivo nazionale, il Parlamentino della CGIL. Nel 2001 si concluse la mia esperienza sindacale quando mi fu offerta una candidatura come consigliere comunale a Roma nelle liste DS. Purtroppo non fui eletto e decisi di mettermi in proprio.

E' stata utile questa esperienza nel sindacato?

Direi proprio di sì. Personalmente ho maturato una grande esperienza sia quando mi sono occupato di immigrazione che quando facevo il sindacalista nell’agro-alimentare. Da responsabile delle politiche di immigrazione ho fatto cose importanti sia in Italia che in Europa; Sono stato anche nella commissione "Immigrazione e Minoranze" della Confederazione Europea dei Sindacati. Il processo di integrazione degli immigrati all’interno del sindacato è stato progressivo e graduale; in un primo momento la promozione della soggettività degli immigrati come protagonisti nella CGIL tramite l’istituzione dei coordinamenti. Successivamente la scelta di integrare le problematiche dell’immigrazione dentro le politiche generali del sindacato a cominciare dalla contrattazione sul lavoro ma anche nella società. Dopo un periodo di maturazione, in alcune zone si decise di superare la "ghettizzazione" degli immigrati nei coordinamenti e di dare piena cittadinanza a quegli attivisti e operatori sindacali immigrati. Oggi in CGIL abbiamo sindacalisti di origine immigrata anche a livello dirigenziale per tutti i lavoratori e in alcuni casi come segretari di categoria. Dal 1993 molte aziende avevano iniziato a riconoscere alcune richieste specifiche, come il cumulo delle ferie per i lavoratori che, desiderando tornare in patria, necessitano di periodi di congedo più lunghi; o l'istituzione di menù specifici nelle mense aziendali per i lavoratori musulmani... segno evidente di un processo di integrazione nel mercato del lavoro. Oggi si può dire che l’integrazione sia più avanzata nel lavoro che nella società dove le difficoltà ancora permangono.

E l’esperienza nell’agro-alimentare?

Lì ho avuto l’opportunità di misurami con problematiche prettamente sindacali, dalla negoziazione alla contrattazione aziendale, dalle ristrutturazioni alle riorganizzazioni aziendali e settoriali. Ricordo il periodo della mucca pazza mentre, alle prime armi, seguivo una delle aziende leader nella produzione di carne. Per me era un’esperienza straordinaria anche perché l’allarmismo sociale e la mobilitazione che aveva determinato ci indusse ad assumere con grande senso di responsabilità i rischi che la crisi comportava e le conseguenze nefaste che avrebbe avuto sull’occupazione. Evitare un calo vertiginoso della domanda dando garanzie sulla qualità della carne italiana, comunicare fiducia ai consumatori dimostrando attenzione alla tutela della salute dei cittadini era una sfida non facile. Dall’etichettatura alla rintracciabIlità, dalle norme di controllo a quelle sulla trasparenza il comparto reagì molto bene alla crisi anche grazie al contributo del sindacato. Un altro momento forte era l’avvio del processo di privatizzazione dei Monopoli di Stato e la conseguente creazione dell’ETI (Ente Tabacchi Italiani). Nel settore lattiero caseario le ristrutturazioni hanno ricalcato i processi di privatizzazione delle centrali del latte fino a sancire il duo polo Parmalat-Granarolo. L’altra cosa che mi è rimasta impressa quando seguivo gli artigiani alimentari era le loro difficoltà indotte dalla Grande Distribuzione Commerciale. Insomma, vi sono stati momenti di grande formazione per me, il sindacato è una grande scuola e fare sindacato in Italia è qualcosa che ti segna per tutta la vita. Lì hai un punto di osservazione dei processi socioeconomici ma anche politici. Proprio per questo, un sindacalista gode di una visione complessiva e deve avere competenze multidisciplinari (economia, diritto, sociologia, antropologia, psicologia ecc…. In Italia il sindacalismo è un "fatto totale" davvero una grande scuola. Posso dire che sono stato privilegiato.

Oggi, cos’è cambiato nel mercato del lavoro italiano con la presenza degli immigrati?

Il mercato del lavoro italiano ha avuto un suo intrinseco dinamismo. Gli immigrati sono entrati nei processi di trasformazione che erano già in atto, diventando in parte funzionali ed essi, in parte imprimendo loro una direzione e contribuendo a cambiarli. Ci sono state dinamiche positive e negative. Alcuni settori hanno scongiurato il rischio di un "collasso" grazie all’offerta di lavoro immigrato. Molti settori non ce l’avrebbero fatto senza i lavoratori immigrati. Si pensi alla concia o alcuni comparti dell’agricoltura come l’allevamento, la raccolta dei prodotti o ancora della chimica o semplicemente ai lavori di cura nelle famiglie italiane. Senza gli immigrati non terrebbero. Ciò rappresenta un fatto positivo che dimostra come gli immigrati possono essere non solo essere utili ma addirittura decisivi in alcune dinamiche economiche del paese. Tuttavia, vi sono anche dei risvolti negativi come la tendenza verso la "balcanizzazione" del mondo del lavoro come conseguente di una segmentazione su base etnica. Vi è inoltre il problema della non valorizzazione delle competenze di cui alcuni molti immigrati sono portatori. Si pensi alla laureata peruviana che fa la badante, l’ingegnere indiano che lavora negli allevamenti, il medico palestinese che vende tappeti ecc… insomma, il cosiddetto "brain waste" una grave perdita. Vi sono altri aspetti negativi come la concorrenza al ribasso e il "dumping" contrattuale. Quest’ultimo può rappresentare per le imprese un immediato vantaggio competitivo, soprattutto in termini di costi, ma a lungo termine la bussola non può che essere la qualità. Puntare sulla qualità significa, al di là dei prodotti o servizi, valorizzare al meglio i lavoratori immigrati in una ottica più generale di investimenti sulle risorse umane evitando che il tutto si riduca in un mero scambio tra bassi salari e lavoro squalificanti. Le imprese più lungimirante investono sulla formazione, favoriscono la mobilità professionale e introducono forme di flessibilità per venire incontro a bisogni specifici, penso all’esigenza di farsi carico del calo di produttività dei lavoratori musulmani durante il mese di Ramadan. Insomma, facendo quel che viene denominato Diversity Management. Di recente si è innescato un processo nuovo sul fronte del lavoro autonomo con la nascita di imprese gestite da immigrati e che rappresentano una altra fonte di creazione di ricchezza.

Quali sono i settori prevalenti di inserimento nel lavoro?

Il livello di integrazione nel lavoro raggiunto dagli immigrati in Italia è piuttosto buono. Nel Nordest del paese c'è un'integrazione pressoché totale del lavoro immigrato nelle fabbriche. In alcuni comuni del Vicentino e del Trevigiano ai lavoratori immigrati vengono spesso offerte case a prezzi stracciati e in alcuni centri c'è anche la moschea... Le zone in cui l'integrazione nel lavoro è maggiore sono, oltre al Veneto anche la Lombardia, l'Emilia Romagna e la Toscana. La necessità di manodopera per "lavori che gli italiani non vogliono o non sanno più fare" ha paradossalmente creato situazioni di minor conflittualità sociale in alcune aree a forte presenza di immigrati. Va pure detto che non c’è nessuna soluzione di continuità tra inserimento in fabbrica ed integrazione nella società e sul territorio L’impiego della forza lavoro immigrata nell’industria, nel terziario avanzato e nell’agricoltura avvengono in generale nei segmenti dove sono prevalenti la precarietà, i lavori usuranti o quelli a forte domanda di flessibilità sia funzionale che organizzativa. Si sa che gli immigrati possono rappresentare una variabile di aggiustamento importante. Si pensi alla questione degli orari, un fatto emblematico è la disponibilità a fare orari straordinari. Tuttavia, queste tipologie di inserimento nel lavoro, a loro volta, hanno determinato una concatenazione di effetti benefici come in seguito a processi di Spin Off che favoriscono il lavoro autonomo e quindi la nascita di iniziative imprenditoriali nelle grandi città italiane o il fenomeno di delocalizzazioni produttive nei paesi d'origine. Si tratta di processi nuovi che possono evolvere e radicarsi perché potenzialmente destinati a innescare nuove dinamiche economiche. Basti pensare che oggi sono registrate 211.000 imprese di immigrati secondo i dati Infocamere 2002. Nel complesso il bilancio è positivo, la giovane immigrazione italiana è sempre più radicata nell'economia del paese ed è un processo ormai irreversibile. I processi sociali vanno avanti ma rimane tuttavia una netta divaricazione tra processi reali e regolamentazione giuridica. Insomma, se l’economia è più avanti dalla società, va detto che la società è più avanti dalla politica.

Quali sono, a suo avviso, gli aspetti irrisolti della condizione dei lavoratori stranieri in Italia?

Nonostante gli aspetti positivi, alcuni problemi irrisolti permangono. Rimane, soprattutto al Sud, un tasso che definirei fisiologico di "lavoro nero", il lavoratore immigrato sottoposto al bisogno di sopravivenza si inserisce nella rete già esistente dell'economia sommersa di cui diventa una componente fondamentale. Un altro aspetto negativo consiste nel fatto che spesso gli immigrati vengono impiegati in lavori precari e usuranti, con rischi elevati per la loro salute prima ancora che sul fronte della tutela dei diritti sindacali. Esistono anche problemi attinenti alla scarsa mobilità professionale e un consistente deficit formativo, che, uniti al frequente mancato riconoscimento dei titoli di studio stranieri, rischiano di congelare i lavoratori immigrati in posizioni lavorative di basso profilo. Permane inoltre il divieto di accesso al pubblico impiego eccezion fatta per la categoria degli infermieri professionali. Solo una volta acquisita la cittadinanza, un iter che rimane ancora lungo, incerto e irto di difficoltà, il lavoratore immigrato, diventando cittadino italiano, potrà accedere alle carriere pubbliche. A differenza degli altri grandi paesi industrializzati (Stati Uniti, Canada, Francia, Gran Bretagna e Germania ecc…), in Italia le politiche di accompagnamento sono incerte e rimangono sulla difensiva. E nella migliore delle ipotesi l’impostazione prevalente ricalca un mix tra protezionismo nazionale e carità cristiana a scapito di una politica positiva in grado di valorizzare meglio un fenomeno di cui non si può più fare a meno e non soltanto sul piano della compensazione demografica. Insomma, è come se la politica in Italia fosse costretta a fare di necessità virtù, proiettando soluzioni minime e di basso profilo. Occorre avere più coraggio e determinazione.

Appunto, secondo molti, l’economia italiana non può più fare a meno degli immigrati per continuare ad essere produttiva e per poter pagare le pensioni ai lavoratori?

Si tratta di un dato evidente che non sfugge più a nessuno, lo sanno le imprese, lo sanno le famiglie italiane, lo sanno gli enti statali a partire dall’INPS ma anche l’Agenzia delle entrate ... L’immigrazione è una risorsa e dicendo questo non è fare retorica è un dato di realtà. Al di là del loro contributo in termini di lavoro, la crescente popolazione immigrata rappresenta un bacino di utenza per il sistema dei servizi, un parco cliente consistente in quanto consumatori ecc.. Tuttavia, il fenomeno va in qualche modo "gestito" e non lasciato a dinamiche auto regolativi. Occorre ragionare sia sul fronte degli stock quindi gli insediamenti sia sui flussi che non devono essere unidirezionali ovvero solo in entrata ma anche in uscita con politiche di rientri assistiti ad esempio. La politica qui ha un ruolo fondamentale non solo sul piano normativo (leggi, regolamenti ecc...) ma anche sul piano delle politiche (accordi bilaterali, formazione, investimenti promozionali ecc..). Quindi a nulla serve un diatriba prettamente ideologica tra forze politiche, a nulla serve un approccio difensivo e repressivo e come si usa dire "non si ferma il vento con le mani". Anzi dico che l’immigrazione se gestita bene comporta più vantaggi che svantaggi. Pensare l’immigrazione in termini utilitaristici non vuol dire negare che sono persone in carne ed ossa che vengono. Cosi come non può essere sufficiente pensare l'immigrazione esclusivamente come opportunità di risolvere i problemi della domanda di lavoro in Italia. Per garantire una compensazione tra italiani e stranieri sarebbe necessaria una volontà politica più intensa da parte del Governo italiano paragonabile a quella del Governo canadese, intelligentemente e coerentemente impegnato nella progettazione economica e nelle prospettive di costruzione della convivenza in una società multietnica. Bisognerebbe programmare in modo flessibile le quote di ingresso, tenendo conto della fluidità dei processi nel mercato del lavoro favorendo l’ingresso per ricerca di lavoro e poiché vengono delle persone non solo delle braccia concedendo diritti di cittadinanza a chi rimane in Italia. Insomma servono politiche rigorose ed innovative.

Ora lei è coordinatore del forum dei democratici di sinistra, come la mettiamo?

Il Forum è stato pensato sul modello che la CGIL seppe mettere in campo negli anni ‘90. Già ritengo questa una scelta innovativa. Oggi nel panorama politico noi siamo l’unica forza politica che ha promosso una struttura di partecipazione degli immigrati. Questa scelta consente non solo di dare voce agli immigrati come protagonisti della politica non solo per quel che li riguarda. Insomma nel Forum fanno parte anche deputati e senatori, eletti locali e ricercatori universitari, espressioni del mondo dell’associazionismo e "last but not least" cittadini immigrati con la loro soggettività. Il Forum è una sede di elaborazione e di proposta sui temi dell’immigrazione ma nel contempo consentirà di selezionare una nuova classe dirigente di origine immigrata. Poi per quanto riguarda le politiche va ribadita che non siamo all’anno zero. Durante la vicenda del Governo di centrosinistra, abbiamo varato una buona legge la Turco-Napoletano che pur con i suoi limiti, rappresentava una norma che guardava al futuro. Nel complesso la legge Turco-Napolitano unificava tutte le leggi precedenti proponendo un Testo Unico e organico con relativo regime attuativo; proponeva una utile ricognizione legislativa, semplificava il quadro di riferimento, riconfermava e sistematizzava la programmazione dei flussi che veniva regolamentata da un Documento di Programmazione Triennale inteso soprattutto a stabilire gli stanziamenti per le politiche immigratorie. Un'altra innovazione era costituita dalla Carta di soggiorno dalla durata illimitata e che si può ottenere dopo cinque anni di permanenza in Italia consentendo una stabilizzazione. Importante era anche la possibilità di ingresso per ricerca di lavoro che rappresentava un leva correttiva di eventuali rigidità della programmazione numerica. Sul fronte del lavoro autonomo è importante rilevare l’abolizione della clausola di reciprocità che ha consentito a molti immigrati di avviare lavori in proprio.

Il suo giudizio sulla Bossi-Fini?

E’ decisamente negativo il mio giudizio. Non lo dico per ragioni di parte. A me non appartiene la cultura della preclusione ideologica. Come sempre, il mio giudizio scaturisce dal merito e non dalla fonte. Nel merito la Bossi-Fini è un provvedimento "emendativo" con chiaro intento repressivo e di rifiuto dell’immigrazione. Reca modifiche alla Turco-Napolitano sconvolgendo sia lo spirito che la lettera. Alla fine consegna al paese un mostro giuridico difficilmente applicabile. Per alcuni dei suoi propositi sono sollevati dubbi di incostituzionalità. Le parti più problematiche sono sul lavoro con l’introduzione del contratto di soggiorno che vincolando la permanenza in Italia dell’immigrato al contratto di lavoro consegna il destino di quest’ultimo al suo datore di lavoro che lo può ricattare. La disoccupazione molto spesso significa l’espulsione dall’Italia, come se il mercato del lavoro fosse rigido e il contratto a tempo indeterminato o il "posto fisso" dovesse rimanere la regola nelle tendenze attuali del mercato del lavoro. Insomma è una norma contro la flessibilità del rapporto di lavoro e per nuove servitù. E’ semplicemente inaccettabile sul piano morale e politico. Poi le impronte digitali solo per gli immigrati sa molto di legislazione speciali, che orrore! Mi rincresce il fatto che non vi è stata una grande mobilitazione democratica contro delle violazioni così palesi in uno stato democratico. Oggi, abbiamo solo sentenze di giudici e magistrati contro. La sinistra deve fare qualcosa di più lanciare un dibattito di società sulla Bossi-Fini e sui temi dell’immigrazione. Insomma, la sollecitazione di fondo che l’immigrazione pone alla politica e alla democrazia italiana è quella di un riequilibrio tra "ethnos" o "demos".

E la proposta di Fini sul diritto di voto?

Concedere il diritto di voto è importante per noi. E’ in corso la nostra campagna lanciata diversi mesi orsono. …ma si sa che quando un "uomo morde un cane" fa certamente notizia! In ogni caso, per noi la caduta di un tabù ideologico della destra è un bene. Il merito del DL ci lascia perplessi per i criteri per poterne usufruire. Comunque è salutare per la democrazia italiana vedere il leader della Destra nazionalista muoversi verso una visione repubblicana dello stato e della politica. Non c’è nessun imbarazzo se, oltre ad essere d’accordo con Fini su un principio, cerchiamo il confronto. Rammento il fatto che quando in gioco sono i valori repubblicani non devono prevalere logiche di parte trattandosi di problematiche non di governo ma dello Stato e delle sue regole. In Francia i compagni socialisti e i comunisti hanno votato per Chirac al secondo turno delle presidenziali quando il suo rivale era Lepen. Lo hanno fatto magari turandosi il naso per difendere la Repubblica, insomma il gioco vale la candela. Questo deve valere anche per noi, pur di dare uno sbocco concreto ad un diritto che come minimo cambierà il modo in cui si discuterà dell’immigrazione.

Lei è musulmano, l’Islam ha problemi di immagine nella società italiana?

Si sono musulmano praticante e mia moglie è italiana cattolica. Noi riusciamo a vivere bene questa nostra diversità .. ecco mi piacerebbe fosse così anche fuori da casa mia. Tuttavia, una politica nei confronti dell’islam va fatta soprattutto per stimolare il dialogo e la convivenza, garantire la libertà religiosa e promuovere la Consulta come sede di rappresentanza e di interlocuzione. Urge arrivare ad una intesa tra l’Italia e i musulmani. Così come va fatta una politica di contrasto contro tutte le intolleranze sia che provengano da musulmani sia che ne siano vittime. Il dialogo tra Islam e Occidente non solo è necessario ma è indispensabile per la pace e la sicurezza del mondo.

Lei è ottimista?

Dopo l’11 settembre l’islamofobia è la nuova variante del razzismo nei paesi occidentali nonostante il fatto che grazie al Papa abbiamo scongiurato lo spettro di una guerra di religioni. Un errore che può essere fatale consiste nel fare l’amalgama tra terroristi e fedeli dell’islam. Così si rischia di consegnare tutti i musulmani a vari estremismi e fondamentalismi. I media hanno una responsabilità enorme, per il bene dell’umanità intera devono smettere di soffiare sul fuoco... Oggi nel mondo, abbiamo sete di pace e fame di giustizia. Capisco le angosce e le incertezze insite nei processi di globalizzazione ma non possiamo pensare che tutto si risolva con nuovi trialismi o peggio ancora con nuove persecuzioni e guerre di religioni. La politica, e la sinistra in particolare, avrebbe un ruolo fondamentale se riuscisse a ripartire dall’illuminismo e dei suoi valori: libertà, uguaglianza e fraternità. Sono altresì necessari nuove forme di cooperazione internazionale e per la promozione dei diritti umani, la lotta contro la fame e il sottosviluppo della stragrande parte dell’umanità. Servono politiche promozionali volte a globalizzare diritti e solidarietà.

**********

Aly Baba Faye, sociologo senegalese in Italia da 20 anni, è stato da poco insignito del prestigioso Premio Mediterraneo per la pace e la solidarietà, assegnato ogni anno a Lauria, in provincia di Potenza.

 

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