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L'iconoclastia di Ignazio Juan Patrone - Magistrato
4.11.2003

Raramente si ha la possibilità di vedere qualcosa di nuovo sotto il sole.
Se andrete sul sito del Forum della Rivista Quaderni costituzionali,
http://web.unife.it/progetti/forumcostituzionale/ , troverete un ampio
dibattito tra costituzionalisti e docenti di diritto ecclesiastico sul
crocifisso nelle aule, sviluppatosi dopo la decisione di una insegnante di
La Spezia, nel 2001, di togliere il simbolo religioso a seguito dell'arrivo
nella sua classe di un ragazzo islamico.
Il crocifisso venne poi riappeso a "furor di genitori". Il dibattito è già
stato riaperto da due interventi, all'impronta, sulla ordinanza
dell'Aquila.

Secondo il comune sentire oggi trasmesso dai più, il giudice Montanaro sarebbe
colpevole di iconoclastia, movimento ereticale sorto in Oriente, provocato,
come è certamente noto a tutti i politici che sono intervenuti nel dotto e
brillante dibattito, dall'imperatore Leone III Isaurico nel 726, movimento
durato per circa un secolo ma già condannato, oltre che più di recente da
Bruno Vespa, da Papa Gregorio III nel Concilio di Roma del 731.
Per fortuna il presidente del tribunale ha sospeso l'esecuzione
dell'ordinanza iconoclasta, il che acquieterà forse le coscienze non troppo
immacolate dei tanti scribi, farisei, mercanti nel tempio, pubblicani e
scomunicati (tra essi: tutti i divorziati e pubblici concubini, gli (ex ?)
comunisti, i framassoni più o meno dichiarati, i modernisti, e via via tutti
i condannati da Santa Romana Chiesa con decreti che non risulta siano mai
stati revocati o abrogati), i quali ora tanto si agitano a difesa di
"radici" cristiane delle quali, magari, poco o nulla conoscono.
Gli scribi e i farisei e gli scomunicati sono stati ora in gran numero
colpiti sulla via della nuova Damasco, rappresentata dalla necessità di non
suscitare le ire della CEI in vista del voto, amministrativo ed europeo, ormai imminente.
Del resto, Massimo D'Alema non aveva fatto, pochi mesi or sono, sperticato
elogio del fondatore dell'Opus Dei, additato ad esempio di etica pubblica?
E i numerosi sindaci, presidenti di provincia, "governatori" (e magari
qualche presidente di corte o tribunale, chissà) che stanno acquistando a
man bassa crocifissi da ostendere un po' ovunque, magari sui mezzi
pubblici? Tutti senza peccato, tutti già con la famosa prima pietra in mano ?
E non stiamo ascoltando dichiarazioni perlomeno semplicistiche su presunte
"identità nazionali" che il simbolo del Cristo in croce rappresenterebbe e
che andrebbero, perciò, dal singolo giudice "rispettate" in quanto
espressione della volontà generale ?
Con quale motivazione poi il giudice possa, nel caso di volta in volta al
suo esame, dar conto di tale "identità" o "volontà" non è consentito,
ovviamente, sapere.

Nell'imminenza della giornata per la giustizia del 5 novembre mi sembra
opportuno trarre dalla vicenda alcune considerazioni, utili forse per un
dibattito non autoreferenziale (e perciò non sterile) con gli esponenti
della cultura e della società civile che dovrebbero intervenire, e

sperabilmente numerosi, alle iniziative indette dalla ANM.
Come avrete notato da alcuni miei scritti, sono infatti preoccupato per
le prospettive, pratiche e teoriche, di una difesa che sia solo "della
magistratura", o peggio "dei magistrati", e non sappia invece collocare
questi due, pur meritevoli, atteggiamenti in un più vasto programma di
difesa del valore insopprimibile della giurisdizione e della sua autonomia
e indipendenza nel quadro di quello Stato costituzionale di diritto che
costituisce, come insegna Luigi Ferrajoli, la migliore eredità lasciataci
dalla seconda metà del secolo scorso.

Condivido le parole del magistrato Marco Pivetti, che ha scritto che "la giurisdizione
dimostra sè stessa e che cosa essa è sopratutto in occasione dei casi
difficili, quelli nei quali la cultura dei diritti e delle garanzie riesce
ostica ed indigeribile per il senso comune".
Marco aggiunge: "è possibile, per la giurisdizione, essere sè stessa anche
in situazioni politico-sociali malate ?".
A me piacerebbe rispondere "sì", ed anzi dire che "dobbiamo" esserne
capaci, anche se mi rendo conto che occorrono alcune condizioni che non sono nella
nostra disponibilità.
Vediamo però cosa potremmo cominciare a fare noi, a partire dal 5 di
novembre.
Mi piacerebbe che venisse detto da tutti ed in ogni sede che non contestiamo
minimamente il diritto di ciascuno di criticare le nostre decisioni, e
nemmeno quello di criticare il modo, spesso davvero indifferente ai
diritti dei cittadini, col quale spesso (dis)organizziamo il nostro lavoro, ma che
rifiutiamo la denigrazione e il dileggio.
Mi piacerebbe che si (ri)affermasse l'idea secondo la quale il diritto,
specie quello costituzionale, è stato scritto appositamente per tutelare
soprattutto le minoranze, e soprattutto quelle esigue, ché le maggioranze
si tutelano, come è ben noto, da sole.
Mi piacerebbe infine che, oltre alle pur gravissime questioni riguardanti
la nostra carriera e la nostra autonomia, si affermasse tutto il valore,
costituzionale e logico, della interpretazione del diritto come operazione
complessa posta a tutela del cittadino contro il possibile arbitrio del
governo e dello stesso legislatore.
Perchè di tutte le presunte riforme oggi in discussione, quella che passa
per l'emendamento Bobbio mi appare la più pericolosa.
E questa mi sembra oggi, più di ogni altra, la posta in palio.

Ignazio Juan Patrone - Magistrato

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