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La liberazione alla Pirelli Bicocca di Sergio Cofferati
25.04.2003
L'Unità: La Liberazione alla Pirelli Bicocca
Sergio Cofferati: "Nelle parole dei lavoratori che parteciparono a quegli avvenimenti non è mai mancata la pietà per i morti. Ma non veniva meno la fermezza nel giudizio sulle responsabilità di chi combatté dalla parte del fascismo".

Oltrepassata la portineria, a destra, sul muro di uno dei pochi edifici rimasti di quella che è stata la più grande fabbrica di Milano, è affissa una lapide. Venne posta nel novembre del 1945 dai lavoratori della Pirelli, per ricordare e ringraziare i loro compagni di lavoro morti nella lotta di Liberazione. Come ogni anno da allora, oggi 24 aprile, quei lavoratori verranno ricordati a Bicocca. Quello che si svolgerà non sarà un rito, ma come è sempre stato nel tempo un doveroso e civile esercizio della memoria. Per la democrazia e la libertà. Quella fabbrica non c'è più, i lavoratori che riempiono quel che rimane di quegli antichi spazi sono pochi e così diversi da quelli di un tempo. A quegli operai e impiegati della grande fabbrica si sono sostituiti gli ingegneri, i tecnici informatici, i giovani "atipici" dei laboratori e delle direzioni.

Sono passati giusto sessant'anni da quando, alla fine del marzo del 1943, gli operai della Pirelli incrociarono le braccia per dire con quel gesto simbolico che si riappropriavano del diritto di sciopero che il codice Rocco gli aveva tolto. Le lotte erano cominciate a Torino nei primi giorni del mese e poi si erano estese nelle grandi aree industriali, la loro dimensione aveva sorpreso e immediatamente messo ai margini il sindacato fascista. Gli scioperi erano indotti da ragioni materiali, il salario, la mensa, le condizioni di lavoro, ma acquistarono subito un grande valore politico, quello della ribellione contro il regime fascista e le sue leggi. Se ne rese conto il Governo che inviò la polizia a reprimerle. Quaranta lavoratori della Pirelli vennero arrestati. Ma quel fermento non si spense più, riesplose nel 1944 con un'altra grande ondata di lotte, ed ancora una volta la dittatura reagì con violenza. Migliaia e migliaia di quei lavoratori, interi nuclei delle maggiori aziende, vennero deportati e uccisi nei campi di sterminio nazisti.

Molti di quelli rimasti parteciparono, in varie forme, alla lotta di Liberazione e impedirono che i nazisti in ritirata distruggessero quelle fabbriche. Svolsero consapevolmente un ruolo di responsabilità nazionale, difesero le condizioni materiali del loro futuro e di quello della comunità nella quale vivevano. Per questo molti di loro sono morti. Per ricordarli e per riconfermare i valori per i quali si sono sacrificati, tutti gli anni si rinnova una semplice cerimonia. Per non restare prigionieri dell'idea di una ridicola modernità che rimuove e dimentica, che accetta disinvolti riformismi mirati a riscrivere la storia per sostenere dei progetti politici dell'oggi.

Nelle parole dei vecchi lavoratori che ho conosciuto e che avevano partecipato a quei lontani avvenimenti non è mai mancata la pietà per i morti, per tutti i morti. Ma in nessuno di loro veniva meno la fermezza nel giudizio sulle responsabilità politiche e morali di chi ha combattuto dalla parte del fascismo, e per questo non poteva in alcun modo essere accomunato e confuso con chi come loro si era battuto per ridare libertà e democrazia al Paese. Per me come per molti vale quell'insegnamento.

Penso sia indispensabile tenerlo fermo, con sobrietà e con pacatezza anche davanti all’aggressione mediatica e alla violenza verbale di una destra senza cultura. Bisogna difendere e riproporre i valori che ci hanno lasciato quei lavoratori, difendendo anche la Costituzione che li riassume, difendendola per noi e, per quanto possa sembrare singolare, anche per quelli che l'attaccano. Sono convinto che serve grande fermezza, corroborata da tante iniziative colme anche di piccoli gesti in grado di dare concretezza e contenuti all'esercizio della memoria.
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