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Quando i Taino scoprirono Colombo (di Paola Carini)
7.11.2003

Denver (Colorado), ottobre 2003. Un migliaio di persone – in gran parte nativo americane – marciano per le strade del centro della città per protestare contro la manifestazione organizzata per ricordare Cristoforo Colombo. Dal 1971, infatti, ogni secondo lunedì di ottobre ricorre una festività nazionale chiamata "la giornata di Colombo". Da costa a costa le comunità italo-americane festeggiano con parate tricolori il grande navigatore che per primo scoprì l’America. Il gruppo di protesta di Denver con a capo Wallace Black Elk, lakota, consegna agli organizzatori della "giornata dell’orgoglio italiano" una lettera in cui si chiede di rimuovere il nome di Colombo dalla manifestazione dopodiché se ne va, lasciando proseguire la parata. Contemporaneamente nelle Hawaii Mike Graham, fondatore dell’organizzazione United Native America, raccoglie firme per una petizione affinché non vengano usati i soldi dei contribuenti per questa festa nazionale (l’altra è il Martin Luther King Day il terzo lunedì di gennaio), ma il suo obiettivo finale è quello di fare pressioni sul Congresso perché venga creata una festività dedicata alla Popolazioni Indigene della Nazione, sensibilizzando i politici anche riguardo l’esclusione dei nativo americani dallo sport, dal cinema, dalla televisione, dai media, dalla musica.

Nel 2000 la protesta dei nativo americani a Denver ebbe ben altro esito. Dapprima gli organizzatori della manifestazione accettarono di togliere il riferimento a Colombo dalle celebrazioni poi, all’ultimo momento, cambiarono idea. Così 140 nativo americani che si erano seduti a terra in un atto di disobbedienza civile pregando e bruciando salvia, come è tradizione per molti gruppi tribali, vennero arrestati senza che opponessero resistenza. La polizia ripristinò il proseguimento della parata degli italo-americani, i quali ripresero a sfilare su motocicli e carri indirizzando gesti osceni e insulti ai nativo americani rimasti per la strada. Per onore di cronaca occorre dire che un gruppo di giovani italo-americani apertamente schierati in favore delle posizioni native distribuiva volantini e scandiva lo slogan "Italian pride not genocide", orgoglio italiano si, genocidio no.

In una società come quella americana in cui sull’identità individuale grava il fardello di un’ossessiva declinazione della propria etnia di appartenenza, si comprende facilmente che esaltarne gli aspetti positivi, veri o presunti che siano, contribuisca a dare lustro sia al singolo che al gruppo. Gli italo-americani (molto probabilmente la potente lobby dei "Sons of Italy", i Figli d’Italia), discendenti di un popolo di santi, navigatori e poeti hanno scelto per l’appunto Colombo, il "navigatore audace" che esplorò il "Nuovo Mondo" per celebrare la loro orgogliosa italianità.

Sono numerosi i libri scritti sia sulla conquista dell’America che sulla figura di Colombo, senza contare le fonti dirette, come i suoi diari di bordo o le lettere ai reali di Spagna, e quelle quasi contemporanee, come gli scritti di Las Casas; attraverso di essi ognuno può trarre le proprie conclusioni sulle ragioni e le conseguenze di quella fatidica traversata.

I nativo americani, invece, vogliono che sia cancellato ogni riferimento all’esploratore essenzialmente per un motivo: dal complesso groviglio delle ripercussioni storiche che seguirono l’arrivo di Colombo nei Caraibi la più esiziale per le popolazioni autoctone fu il genocidio. Come definito dalle Nazioni Unite, il genocidio non implica solamente l’uccisione di massa, ma anche ogni tentativo atto a provocare la distruzione fisica, totale o parziale, di un popolo; la lesione della sua integrità mentale, e quindi anche culturale; ogni misura intesa ad ostacolarne le nascite e, non ultimo, l’allontanamento dei bambini dal gruppo. Esattamente ciò che è accaduto in 501 anni di storia americana dopo la "conquista".

Innanzitutto è bene ricordare che Colombo era convinto che il "Nuovo Mondo" fossero le Indie, quando invece approda sull’isola di Guanahani (ora San Salvador) nelle Bahamas – saranno altri due italiani dopo di lui, Caboto e Vespucci, ad esplorare rispettivamente il nord e il sud del continente americano. Secondariamente quel mondo tanto nuovo non era: un imprecisato numero di vichinghi era già arrivato in Groenlandia nel lontano 985, mentre il norvegese Leif Eriksson aveva toccato la terraferma nel 1007, entrando in contatto con le popolazioni native micmac e beothuk.

Giunto nelle isole, Colombo sovrimpone a quel che vede pregiudizi, concezioni, idee tipiche del suo tempo. Così la vegetazione lussureggiante e l’acqua dolce diventano segni evidenti che quello è il paradiso terrestre; le donne indigene con archi e frecce si trasformano in sirene e, siccome non le ritiene particolarmente avvenenti, stabilisce che le sirene non sono belle quanto si credeva comunemente; le perle che gli vengono donate senza dubbio crescono sui rami degli alberi, perché così diceva Plinio. E poi l’oro e le pietre preziose, che devono esserci altrimenti non avrebbe potuto giustificare la sua spedizione ai reali di Spagna e Cuba, che è senz’altro un promontorio del continente asiatico e non un’isola, per cui fa giurare all’equipaggio che quella era una parte dell’Asia pena il taglio della lingua. E gli "indiani", ossia gli abitanti di quelle Indie che lui per primo aveva raggiunto via mare, sono dapprima "timidi" perché pacifici, poi "vigliacchi" perché uccidono gli uomini che aveva lasciato lì dopo essere salpato nuovamente per fare ritorno in Europa, e poi ancora esemplari molto "docili" che sarebbero stati convertiti facilmente alla cristianità. E infatti, nel 1494, due anni dopo aver "scoperto" l’America, Colombo organizza il primo carico di schiavi diretto in Europa. All’incirca 500 taino (compresi donne e bambini), il gruppo autoctono che lo aveva accolto in pace nel suo viaggio precedente, vengono caricati sulle navi e trasportati in Spagna per essere venduti – non molto tempo dopo toccherà alle popolazioni africane compiere quell’infernale viaggio all’inverso.

I taino, sparsi nelle isole Bahamas, in parte in Florida e per tutti i Carabi (Cuba, Jamaica, Haiti e in luoghi ora chiamati Santo Domingo e Puerto Rico, perché cambiare i toponimi è il primo atto di conquista) vivevano in insediamenti urbani con grandi piazze adibite a cerimonie e a giochi con la palla simili a quelle delle popolazioni del centro America e del sudest degli attuali Stati Uniti; la loro struttura sociale, organizzata gerarchicamente, aveva un capo politico e spirituale chiamato "cacicco". Essi conobbero per primi la violenza e la devastazione che gli europei avrebbero poi distribuito a piene mani dal nord al sud del continente. Si stima infatti che da allora ad oggi, in circa 500 anni, siano morti dai tre ai sei milioni di taino, mentre nel Nord America dei 12 milioni di abitanti (la cifra è approssimativa) nel 1500, solo due milioni sono i nativo americani oggi.

Se nei primi cento anni dopo il 1492 si è perpetrato "il più grande genocidio della storia dell’umanità" come afferma Todorov, oggi, nel 2003, la scienza corregge in parte l’assunto che i taino si fossero estinti. In particolare si è creduto a lungo che i portoricani fossero meticci, ossia discendenti principalmente di africani e spagnoli. Un genetista dell’Università di Puerto Rico, attraverso l’esame del DNA degli abitanti dell’isola, ha invece scoperto che il 61% dei portoricani ha il DNA mitocondriale (ovvero quello della madre) amerindio. In altre parole la gran parte dei portoricani è geneticamente nativo americana. In realtà fino a due secoli fa le tecniche agricole, di pesca e caccia impiegate erano ancora quelle delle popolazioni che avevano vissuto nell’isola sin dal 700, a dimostrazione della sopravvivenza di frammenti di cultura taino nonostante secoli di conquista efferata. Il proseguimento della ricerca genetica promette di chiarire anche le migrazioni nativo americane dal nord al sud del continente e viceversa, oltre a quelle, forzate, nei Carabi, che per secoli fu un crocevia nel trasporto di schiavi.

Per i nativo americani è una priorità cancellare ogni riferimento a Colombo dalle celebrazioni perché lui fu l’apripista di quel traffico indegno che insieme alle violenze, alle torture, ai massacri, segnerà profeticamente il destino di un intero continente. Ben 17 stati americani lo hanno già fatto, depennando il Columbus Day dal calendario delle festività nazionali, mentre il South Dakota lo ha trasformato in Native American Day in onore dei milioni di vittime che, insieme ai taino, scoprirono Colombo e gli altri conquistatori europei e, si potrebbe aggiungere, in onore di quelle che oggi continuano a soccombere ad un nuovo genere di conquistatori assetati, tra le altre cose, di petrolio, il sangue della terra.

a cura di Paola Carini

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