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L'eccidio di Nassiriya...articoli di vari autori
16.11.2003

L’eccidio di Nassiriya ha riproposto ciò che da molti era stato ampiamente annunciato.
Le cronache di questi giorni fanno rivivere invece un tipico clima di guerra fatto di retorica e demagogia che impedisce di discutere e capire.

Offriamo alla vostra riflessione due approfondimenti.
· Uno del nostro Michele Di Schiena, magistrato, animatore del movimento per la pace qui a Brindisi.
· L’altro (per chi non l’avesse letto) di Giulietto Chiesa apparso su “il Manifesto” di ieri 15 novembre.
Troverete molti spunti comuni e, qualora li riterrete utili, diffondeteli ancora ai vostri indirizzari per contribuire a creare una cultura alternativa e di controinformazione.
Utilizzo la spedizione per inviare anche, a chi di voi è interessato allo smantellamento della sanità pubblica, un articolo del nostro Maurizio Portaluri (primario di Radioterapia Oncologica presso il Perrino di Brindisi) ed esponente di Medicina Democratica.
Anche in questo caso se riterrete condivisibile l’argomento diffondete.
Giancarlo Canuto –iA SINISTRA - Movimento Politico Antiliberista - BRINDISI

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SANGUE ITALIANO IN IRAQ
di Michele DI SCHIENA

In Iraq continua a scorrere sangue e questa volta è stato sangue italiano, quello dei carabinieri e dei militari uccisi da un ennesimo attacco terroristico cinico e spietato. E’ sangue di uomini innocenti del tutto estranei alle responsabilità per le drammatiche vicende che stanno sconvolgendo quel martoriato Paese, è sangue di modesti ed onesti lavoratori che si guadagnavano il pane facendo un lavoro durissimo, è sangue di cittadini meritevoli che avevano messo le proprie energie e le proprie professionalità al servizio delle istituzioni per tutelare l’ordine pubblico interno contro ogni illegalità e la sicurezza nazionale contro il pericolo di aggressioni esterne.

L’attacco mortale ai nostri militari in terra irachena è dunque una immane tragedia, un terribile evento che il governo aveva previsto e del quale aveva disinvoltamente accettato il rischio, come testimoniano certe preoccupanti dichiarazioni ministeriali che purtroppo non avevano turbato più di tanto questo frastornato e talvolta distratto Paese. Ma è anche una tragedia che si poteva evitare come sono state evitate sciagure del genere da parte di grandi paesi europei che a suo tempo avevano dissentito dalla decisione statunitense di occupare l’Iraq e che oggi coerentemente rifiutano di inviare contingenti armati in quell’area dove si continua a combattere in forme mutate una guerra che in pratica non ha avuto mai termine. Ed allora abbruniamo i pensieri, i sentimenti e le speranze di questa nostra quotidiana vicenda per segnare a lutto, specialmente dentro di noi, questi giorni di afflizione e di mestizia.

Questo non è certo il momento delle retoriche patriottarde, dei proclami salva-coscienza, delle solenni dichiarazioni piene di nulla, dei logori riti di ufficiale cordoglio e, meno che mai, dello spregiudicato tentativo di convertire l’angoscia per l’eccidio in orgoglio nazionale col recondito intento di utilizzare quel sangue tragicamente versato come titolo redditizio da spendere nei rapporti con gli altri paesi occidentali e soprattutto col “grande fratello” americano. E’ l’ora invece del dolore, della pietà, della solidarietà, della preghiera, della riflessione e di un rinnovato impegno contro tutte le violenze, tutti i terrorismi e tutte le guerre. Ed è anche l’ora dell’unità ma solo per stringersi con sentimenti di solidarietà e di condivisione intorno alle famiglie delle vittime, ai carabinieri, alle forze armate e allo Stato repubblicano come disegnato dalla Costituzione che lo fonda sul lavoro e ripudia la guerra. Non ci si può stringere invece intorno ad un governo che a suo tempo si è schierato a favore della guerra americana in Iraq ed oggi continua a sostenerla con l’invio in quel Paese di contingenti armati. Una guerra condannata dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica mondiale, dalla maggior parte dei popoli e dei governi e dalle più autorevoli cattedre religiose e morali.

No, con buona pace di chi suona il silenzio per addormentare la nostra democrazia, non è possibile tacere e perciò va detto a chiare lettere che il governo deve rispondere della sua errata politica estera, lontana dallo spirito costituzionale, docile oltre ogni misura ai voleri e agli ordini statunitensi e dannosa per gli interessi nazionali ed europei. L’eccidio di Nassiriya chiama in causa le responsabilità di questo governo e di questa maggioranza ma fa anche carico all’opposizione non solo del dovere di denunciare l’inadeguatezza delle scelte berlusconiane sul versante della politica militare ma anche del dovere di chiedere con ogni determinazione l’immediato ritiro delle nostre truppe dall’Iraq. E a questo riguardo non può sfuggire che solo un esasperato politicismo ed una distorta concezione del prestigio nazionale, hanno potuto far dire a qualche autorevole esponente del centrosinistra che la missione militare in Iraq, ritenuta all’atto dell’invio delle truppe sbagliata ed ingiusta, debba essere oggi, dopo la strage di Nassiriya, mantenuta e portata avanti quasi che l’eccidio l’avesse a posteriori, chissà come, emendata e resa giusta.

Ma l’auspicio di chi si oppone alle guerre e ai terrorismi è che torni in campo, più forte di prima, quel movimento per la pace che aveva messo a nudo l’iniquità e la pericolosità della guerra irachena. Una guerra motivata in un primo momento con l’indimostrato possesso da parte di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa e successivamente giustificata con la lotta al terrorismo, obiettivo questo clamorosamente fallito dal momento che l’intervento armato invece di abbattere o almeno fiaccare i gruppi terroristici, li ha favoriti e rafforzati facendoli incontrare con la guerriglia ed aprendo nuovi spazi alle loro micidiali incursioni. E poi, come non rilevare che la presenza dei militari italiani in Iraq c’entra come i cavoli a merenda con la lotta al terrorismo che in questi giorni viene ossessivamente evocata a copertura degli errori commessi e peraltro teorizzata in termini marcatamente sbagliati perché il terrorismo – come i fatti dimostrano – non si sconfigge con operazioni e missioni belliche ma combattendo la miseria e l’ingiustizia e facendo ricorso non a missili e bombe ma a servizi di investigazione veramente intelligenti e a misure di polizia internazionale adeguatamente coordinate.

Di fronte a questi terribili scenari di violenza e di terrore, l’unità di coloro che vogliono impedire il ripetersi di eccidi e di disastri va costruita intorno a quella “superpotenza” disarmata che mesi addietro aveva scosso i palazzi del potere politico e le fortezze dei comandi militari, quel movimento che oggi deve tornare a percorrere, sotto le bandiere della non violenza, le vie del nostro Paese e di tutto il mondo per gridare le ragioni della giustizia e della pace contro la disumanità degli sfruttamenti, delle guerre e dei terrorismi le cui vittime predestinate sono sempre i poveri e gli esclusi, siano essi in divisa o in abito civile.

Brindisi, 14 novembre 2003

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Quelle bandiere di GIULIETTO CHIESA

Non bisogna avere paura di dire l'avevamo detto. Il movimento contro la guerra in Iraq è stato, in Italia, il più possente e insieme il più diversificato. Ma tutte le motivazioni che l'hanno fatto grande convergevano su alcune, fondamentali assunzioni: si trattava di una guerra senza alcuna legittimazione; preventiva e quindi doppiamente illegale; sbagliata perché pensata sull'ipotesi che fosse possibile esportare con la forza valori e democrazia; inutile perché non avrebbe risolto alcun problema, a cominciare dalla lotta contro il terrorismo; pericolosa perché avrebbe aggravato quelli esistenti, in particolare moltiplicando i focolai di terrorismo. Tutto ciò che era stato previsto si è, purtroppo, verificato. Ed è tanto più triste constatarlo dopo che molti nostri soldati sono caduti in combattimento. Poiché ciò dice che quei morti potevano essere risparmiati.

Adesso coloro che sono responsabili diretti di quelle nostre morti cercano canagliescamente di nascondere le loro responsabilità sotto una coltre di retorica patriottica. Occorre invece riflettere con il massimo di sangue freddo.

Riflettere significa aiutare la gente a non cadere nelle molteplici trappole che molti media spargono a piene mani. La più insidiosa delle quali è la tesi secondo cui tutto ciò che sta accadendo in Iraq, in queste ore, sia terrorismo fondamentalista islamico importato dall'esterno, farina del sacco di Bin Laden.

A parte il fatto che sostenere questa tesi equivale a riconoscere che gli Usa hanno commesso un errore irreparabile, moltiplicando il pericolo terrorista, occorre dire a gran voce che essa è comunque falsa. Ridurre tutto a terrorismo fondamentalista significa fasciarsi occhi e orecchie e illudersi che esso possa essere domato con un incremento di forza militare.

In realtà è evidente la presenza - accanto, insieme, intrecciata con il terrorismo - di una potente, diffusa resistenza popolare contro le truppe d'occupazione. Questo significa che un aumento della repressione sarà, per un tempo imprevedibile, accompagnato da un incremento della reazione, cioè da altro sangue, altro terrorismo, altre morti, irachene e straniere. Sbagliare la valutazione significa sacrificare inutilmente altre vite.

Ritirarsi è dunque obbligatorio, anche perché il vuoto pauroso creato dalla dissennata guerra statunitense non sarà certo colmato dalla presenza italiana. Perfino il Giappone - che aveva promesso truppe - è tornato sulla sua decisione. La Corea del sud riduce il contingente. L'India rifiuta, la Turchia rifiuta. Russia, Germania e Francia restano fuori. Tutti vili?

In realtà tutti più o meno consapevoli che bisogna cambiare rotta, subito, senza porre tempo in mezzo. Questo barlume di resipiscenza sta emergendo perfino a Washington. Forse per ragioni elettorali, ma potremmo presto trovarci di fronte a una abbandono anticipato del campo da parte perfino degli Stati uniti. Anticipato significa ancor prima che una qualsiasi soluzione di autogoverno iracheno sia stata messa in piedi.

S'impone una iniziativa politica che sia, in primo luogo, un messaggio positivo al popolo iracheno stremato dalla dittatura, dall'embargo e dalla guerra, le cui coordinate sono visibili fin d'ora e che dovrebbero essere subito sperimentate: consegna alle Nazioni unite della responsabilità politica; ritiro annunciato da subito e gradualmente eseguito di tutte le truppe di occupazione; loro sostituzione graduale con le truppe di paesi che non hanno preso parte all'aggressione militare anglo-americana; progressivo inserimento di forze militari e di polizia dei paesi arabi e musulmani.

Difficile? Difficilissimo. Se qualcuno ha soluzioni politiche più facili le esponga.

Il movimento contro la guerra faccia sentire la sua voce. L'emozione e il dolore, insieme alla campagna mediatica, insieme alle incertezze di un'opposizione senza bussola, hanno modificato in senso negativo - inutile nasconderselo - il panorama dell'opinione pubblica italiana. I sondaggi, pur da prendere con le pinze, indicano un paese spaccato in due, dilaniato tra l'ipotesi del ritiro e quella del proseguimento, senza destino e prospettiva, di una presenza italiana in Iraq. Il governo - cieco come prima - dichiara di voler procedere peggio di prima.

Prima che la guerra cominciasse, poi a guerra iniziata, abbiamo riempito il paese di bandiere di pace. Molte sono rimaste - e giustamente - appese a dimostrare che fu giusto metterle, perché la guerra non era affatto finita. Chi le ha lasciate aveva ragione. Le lasci, anche se i loro colori si sono stemperati. Chi le ha ritirate le riesponga. Chi non le aveva ancora messe le tiri fuori. E' un messaggio visivo potente, razionale, solidale, democratico. Moltiplichiamolo, nell'interesse della ragione e della pace.

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MA CHI DIFENDE LA SANITA’ PUBBLICA? di Maurizio Portaluri – Medina Democratica

Dobbiamo accettare l’invito provocatorio, che Piero Quarta Colosso ha rivolto ai pugliesi dal Quotidiano del 12 novembre, ad andare a Rozzano per farci curare presso l’Istituto privato accreditato “Humanitas”? Sicuramente al famoso medico ed imprenditore sanitario leccese oltre alle “scintillanti” apparecchiature non saranno sfuggiti tanti nostri corregionali che nelle ampie sale di attesa e nelle confortevoli camere del moderno e prestigioso Istituto venivano ospitati per effettuare esami e per ricevere cure, e non da oggi.

Apprezzo molto che un imprenditore privato della sanità esponga in pubblico i problemi che ostacolano il pieno svolgimento della sua attività in un settore che ha così immediate conseguenze per un bene prezioso come la salute individuale e collettiva. Egli potrebbe più facilmente cedere alla tentazione di cercare soluzioni in conciliaboli politici e amministrativi. Ma il metodo da lui adottato, il parlarne in piazza, è quello che alla lunga produce le trasformazioni sperate perché aumenta le conoscenze della gente comune e fa crescere la coscienza pubblica. Per questo il suo intervento mi sembra un’occasione che non ci si può permettere di far cadere.

Non credo però che – come egli scrive – “nella nostra regione ogni legge sanitaria è fatta apposta per privilegiare la sopravvivenza delle strutture pubbliche”. La politica sanitaria regionale, dal 2000 ad oggi, ha mirato – a parere di chi scrive - prevalentemente al pareggio di bilancio e solo secondariamente al raggiungimento di obiettivi di salute. In questo quadro non si sono potuti realizzare, né nel pubblico né nel privato, i necessari rinnovamenti e potenziamenti delle tecnologie biomediche e quindi non si è contrastata la migrazione sanitaria.

Ma torniamo per un attimo a Rozzano. E’ vero, la Regione Lombardia ha accreditato tutte le strutture private. Per questo il cittadino lombardo può curarsi dove vuole e le strutture sanitarie private possono ricevere il rimborso di tutte le prestazioni erogate mentre le strutture sanitarie pugliesi devono rispettare il “tetto” massimo di attività rimborsabile dal servizio sanitario regionale a causa del quale, da tre anni a questa parte, chi si ammala in autunno o si paga gli esami diagnostici o aspetta. L’accreditamento “universale” realizzato in Lombardia ha però prodotto un forte deficit che viene ripianato con una piccola addizionale IRPEF in grado, da sola, di generare un’enorme prelievo fiscale considerato l’elevato reddito medio di quella regione. Lì, in altri termini, sono più ricchi e si pagano una sanità migliore anche con quella quota di fondo sanitario pugliese che i nostri ammalati sono costretti a trasferire in Lombardia per curarsi. E’ quindi proprio la concorrenza e la legge del libero mercato di cui si lamenta l’assenza in Puglia che, applicata a livello mondiale e nazionale anche in sanità, accresce l’arretratezza nostra e di tutte le aree più povere nel paese e nel mondo. Per questo era giusto controllare la spesa sanitaria nella nostra regione ma senza frenare lo sviluppo delle strutture carenti. Questi tre anni di “blocchi” hanno ripianato i conti ma hanno anche accresciuto i ritardi.

Ma la sanità non è fatta solo di tecnologie bensì anche di operatori. E a questo riguardo come medico del servizio sanitario regionale devo ammettere che il servizio pubblico può e deve fare di più. Questo auspicio risulta anche da un recente documento regionale sull’utilizzo proprio delle risonanze magnetiche - che Quarta Colosso vorrebbe installare in numero maggiore se solo avesse la certezza di vedere giustamente rimborsato il suo lavoro – da cui risulta che l’attuale dotazione di apparecchiature sarebbe sufficiente in rapporto alla popolazione ma quelle pubbliche non sarebbero pienamente utilizzate. Non affronto qui il problema se tutte le richieste di esami con risonanza magnetica siano scientificamente giustificate, ma ammettendo che lo siano, molte di più se ne potrebbero soddisfare nelle strutture pubbliche. Perché ciò non avviene? Lo stesso rapporto dichiara che il personale non sarebbe sufficiente. Ma non stiamo facendo il riordino ospedaliero anche per risolvere questo problema? A me sembra che sinora l’attuazione del piano stia procedendo “manu militare” quando si tratta di chiudere servizi e reparti ma si arresta quando si devono trasferire dove vi è urgente necessità infermieri e tecnici, i veri “volani” dell’assistenza sanitaria. Interessi di campanile e difese corporative si intrecciano e strangolano le esigenze sanitarie della popolazione. Ma non difende il posto di lavoro, proprio e dei propri figli, e tanto meno la ricchezza di questa regione quel lavoratore della sanità che, per non allontanarsi di qualche chilometro da casa sua, ostacola lo sviluppo del servizio sanitario pubblico costringendo indirettamente la nostra gente a recarsi presso i tanti “Rozzano” dei suoi calvari per curarsi, arricchendo così le strutture sanitarie e le regioni del nord e impoverendo ancora di più quelle meridionali, sia pubbliche che private.
Brindisi, 13 novembre 2003

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