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Donne (di Paola Carini)
7.01.2004

I nativo americani sono stati, e sono ancora, tra le popolazioni più soggette a stereotipi, preconcetti e idealizzazioni, a partire dal nome di "indiani" affibbiatogli sin dai tempi di Colombo. Nell’immaginario collettivo occidentale, gli uomini "indiani" sono cavallerizzi provetti che assaltano forti e prendono scalpi, parlano a gesti, quasi grugniscono e, a volte, sono facilmente ingannati dall’uomo bianco; ma le donne "indiane"? Non possono che essere "principesse" come Pocahontas, eroina disneyana che salva l’aitante John Smith da morte certa.

La Storia non rende onore alle figure femminili nativo americane che contribuirono a farla, a partire dalla stessa Pocahontas, che principessa – categoria sociale inimmaginabile nell’America autoctona – certo non era. Sacagawea, che accompagnò gli esploratori Lewis e Clark nel loro viaggio verso ovest aiutandoli enormemente grazie alla sua conoscenza di più lingue amerindie, è un’altra macchia sbiadita sullo sfondo di una storica impresa declinata solamente al maschile ed esclusivamente bianca.

Storicamente, si è a lungo messo in ombra il fatto che molti gruppi tribali erano e sono matrilineari, ossia l’appartenenza alla tribù, al clan, lo status sociale e le eventuali ricchezze sono ereditati per via materna; che erano e sono le donne haudenosaunee (iroquois) a decidere gli uomini che faranno parte del Consiglio della Confederazione; che erano e sono le donne apache e navajo a coltivare la terra, a possederla, a distribuirne i raccolti e a lasciarla in eredità alle proprie figlie. Tra i tlingit, a questi vantaggi della matrilinearità si aggiunge il riconoscimento dell’affiliazione al clan paterno, per cui un bambino appartiene al clan della madre ma è anche "figlio" del clan del padre e diventa fratello degli altri figli di quel clan. In questo modo, nei secoli, i tlingit hanno costruito una rete di parentela così forte che un bambino, nella malaugurata evenienza che fosse rimasto orfano, non rimaneva mai senza una famiglia che lo crescesse. I gradi di parentela sono talmente estesi ed intricati che né in italiano, né in inglese, né in nessun altra lingua occidentale si trovano nomi (e concetti) corrispondenti. Tra altre tribù non spiccatamente matrilineari, sebbene i leader spirituali fossero uomini, erano le donne ad essere le guaritrici, ad avere conoscenze mediche, erboristiche e spirituali altrettanto potenti.

In molte narrazioni mitiche tribali la presenza di divinità femminili è consistente. Secondo alcune popolazioni pueblo fu Iyatiku, Donna Granturco, a donare la prima pannocchia agli esseri umani, proprio come Donna Bufalo Bianco donò la pipa ai lakota, offrendo anche le indicazioni cerimoniali che perpetuano il rapporto tra gli uomini e le donne e la divinità. In entrambi i casi la pipa ed il granturco sono simboli sacri impiegati in rituali, le cui modalità ancora oggi sono rintracciabili nel corpus mitologico di ogni gruppo. Ad ogni cerimonia Iyatiku è presente sottoforma di Irriaku, cioè nella forma di una perfetta pannocchia, così come la Sacra Pipa lakota testimonia la presenza di Donna Bufalo Bianco.

Nel sudovest è molto comune ritrovare la stessa divinità femminile sotto altri aspetti, ai quali spesso si associa la genesi umana. Non è attraverso il proprio corpo ma attraverso un gesto, come un soffio su di un involto sacro, che queste divinità danno vita agli esseri umani. A volte basta un atto di pensiero, come fece Ts’its’tsi’nako, Donna Pensiero, per creare la stirpe umana.

Nelle pagine dimenticate della Storia americana, almeno quella degli ultimi due secoli, c’è un esercito di donne nativo americane che, in ambiti diversi, hanno combattuto per la loro gente - d’altra parte il riscatto, in ogni luogo oppresso della terra, parte sempre dalle donne. A partire dalla fine dell’ottocento, un numero sempre più alto di donne cominciò ad opporsi all’obliterazione di usi e costumi tribali imposta dalle leggi del governo americano, dai missionari, dai collegi per ragazzi indiani. Sarah Winnemucca, chiamata la "principessa" perché portava sempre l’abito tradizionale, cominciò a girare il paese richiamando l’attenzione del pubblico che frequentava i suoi seminari sulle difficoltà e la prostrazione del proprio popolo, i paiute. Susan LaFlesche, omaha, diventò il primo medico donna di origini nativo americane, e si dedicò soprattutto al miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie indiane, soprattutto per quanto riguardava la tubercolosi. Sua sorella Suzette viaggiò per l’America e l’Europa raccontando dello sterminio dei bufali per affamare le tribù, dei trattati che il governo non onorava, del ladrocinio della terra perpetrato con leggi ad hoc, come l’Allotment Act, o Dawes Act, che parcellizzava la terra tribale in piccoli appezzamenti diretti a singoli individui e ne lasciava la gran parte libera per essere venduta dal governo al miglior offerente. E poi ci furono Emily Johnson (mohawk) attrice di teatro e poetessa che si battè per l’immagine della donna nativo americana, e Zitkala Sa (sioux), ossia Gertrude Simmons Bonnin, violinista e donna di cultura che riuscì a fondare, dopo l’esperienza della Society of American Indians, il National Council of America Indians (NCAI) nel 1926. Queste donne, istruite nelle migliori scuole americane, riuscirono a creare lobbies che fecero pressione a livello politico.

Nei primi decenni del novecento numerose donne nativo americane di varie tribù si distinsero per lo sforzo di dare nuova linfa ad attività artigianali tradizionali, combinandole con le richieste di un mercato che si stava aprendo grazie a nuove forme di turismo nelle riserve. Maria Martinez, del pueblo di San Idelfonso, e Nampeyo, hopi, iniziarono a ricreare sui loro vasi disegni e decorazioni che una volta erano appartenuti alle loro antenate artigiane, riunite in società segrete che furono poi sciolte con l’arrivo e lo stanziamento degli europei. All’incirca negli stessi anni, Ella Deloria, linguista e studiosa di folklore di origini sioux, raccolse un’enorme quantità di dati e informazioni fino ad allora inaccessibili sulla lingua e sulla cultura sioux. Analogamente, negli ultimi decenni, Nora Marks Dahuenhauer, tlingit, ha raccolto materiale linguistico sufficiente da offrire un mezzo insostituibile per l’insegnamento della lingua tlingit che, se non venisse più insegnata e parlata, potrebbe scomparire nel giro di 60 anni. Oggi, ci sono donne nativo americane che sono anche capi tribali, come Wilma Mankiller, presidente della nazione cherokee per ben due mandati; altre, semplicemente, insegnano alle giovani generazioni usi e tradizioni passati altrimenti perduti.

A questo enorme sforzo per rimpossessarsi dei propri diritti e della propria cultura è corrisposto un altrettanto alto prezzo da pagare: ancora oggi le donne nativo americane percepiscono i salari più modesti e sono più spesso disoccupate, ritrovandosi al gradino più basso della società americana; negli anni settanta ci fu persino lo scandalo della sterilizzazione, compiuta su donne nativo americane a loro insaputa negli ospedali tribali pochi giorni dopo un parto regolare - anche in questo caso fu una donna, la dottoressa Connie Uri, choctaw, a dare avvio alle indagini investigative. (Questa "pratica" non deve, purtroppo, sorprendere: l’attuale Ministero della Sanità peruviano ha reso noto che nel Perù del presidente Fujimori circa 200.000 donne indios, soprattutto quechua e aymara, siano state obbligatoriamente sterilizzate tra il 1996 e il 2000).

Eppure, nonostante tutto ciò, nell’America indiana il riappropriarsi lento ma costante della propria dignità è frutto dell’impegno ineguagliabile di un esercito di donne coraggiose che combattono quotidianamente per assicurare il futuro di tutti o, come molte tribù dicono, per le sette generazioni che verranno.

Paola Carini

 

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