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Riformismo senza riforme
8.01.2004

Non s’è mai parlato tanto di riforme e riformismo come da un po’ di tempo a questa parte. Il tema del "partito riformista" attraversa polemicamente l’intero schieramento delle forze d’opposizione: tutti sono riformisti, ma alcuni più degli altri.

Si tratta di un parlare, discutere, attaccare e difendere per lo più soltanto formale: nel merito delle riforme si entra poco o nulla, almeno in pubblico e al pubblico. Che se ne parli in qualche ufficio studi o fondazione o salotto o ristorante, non si dubita (o si spera), ma certo non ne sono piene le pagine dei grandi quotidiani. Abbiamo letto interviste sul riformismo e ciò che in termini di alleanze e schieramenti implica ed esclude; ma, per esempio, se la riforma del sistema sanitario e previdenziale sarà fatta dai riformisti vincitori nell’intento di rafforzare, migliorare e sviluppare il moderno e democratico stato sociale, oppure per ridurlo ad un modesto contorno e supporto "misericordioso" al servizio dello Stato (preteso) liberale, di ciò, anche se decisioni programmatiche di peso politico siano state prese, non giunge notizia a chi non sia tra gli happy few.

Diciamo la verità: che un partito o uno schieramento politico sia o si chiami riformatore o riformista, non è interessante per nessuno; interessante è sapere quali riforme vuole proporre e poi fare, e quale società italiana intende preparare e poi realizzare con la sua opera politica.

D’altronde, "riformismo" significa che si vuol cambiare la fisionomia economica, sociale, politica, giuridica, civile d’una società col metodo delle riforme e non col metodo della rivoluzione o dell’imposizione autoritaria: ma poiché oggi è ovvio che chiunque si dica e sia democratico non propone altro metodo che quello riformista, il primato passa dalla definizione del metodo al contenuto dell’azione. Se si è riformisti o no, è perciò una chiacchiera, magari tatticamente utile: quali riforme si vogliano, e come, ciò sì è davvero impegnativo.

L’esempio dello Stato sociale non è scelto a caso. Per soffermarsi solo su ciò che riguarda la salute, sappiamo che per una certa parte degli italiani (in genere, degli Occidentali), l’idea che tutti i cittadini, e perciò primariamente i ceti medi e bassi, vadano all’ospedale o si curino in casa quasi gratis, con i più avanzati e costosi ritrovati della scienza medica moderna, comprati e usati a spese della comunità, è offensiva dello spirito di libertà e soprattutto, con le sue amare conseguenze fiscali, dannosa e negativa per lo sviluppo economico e l’ulteriore arricchimento dei più fortunati; e sappiamo anche che in conseguenza di errori e colpe assai gravi del passato, Stato sociale o Welfare sono state parole pressoché malfamate. Ma, se essere e dirsi riformatori è tanto importante, perché mai al centro degli interessi riformatori non è in atto un grande dibattito politico, su un tema come la riforma sanitaria nello Stato democratico di domani, tema ovviamente centrale, con tutti i suoi annessi e connessi?

Si dovrebbe dire agli italiani: noi crediamo nella sanità pubblica a tutti assicurata quale espressione centrale dello Stato democratico attuale e futuro, e perciò, scontata la sua crisi e gli errori passati, vi proporremo un sistema sanitario tecnicamente e strutturalmente riformato in termini d’efficienza e di costi; oggi discutiamo quale e come, esaminiamo le varie alternative, poi, alla fine sceglieremo un modello su cui vi chiederemo il voto; oppure, al contrario, si potrebbe dire: una grande e totale struttura sanitaria e previdenziale anche noi riformisti la rifiutiamo, pensiamo che aumenti il peso improduttivo dello Stato e che sia incompatibile coi problemi dello sviluppo generale e dell’occupazione attuale e futura: perciò, studieremo una riforma che aiuti a superare l’attuale crisi e per il futuro vi preghiamo di farvi, ciascuno di voi, una bella assicurazione, e chi non ci riesce, se si ammala sarà disperato, ma così vanno le cose, poiché la Thatcher ,quando diceva che la società non esiste, aveva molto torto, ma anche un po’ di ragione.

I riformisti e riformatori, si può esserne certi, sono nel loro cuore dalla parte degli interessi delle miriadi di cittadini di reddito medio e basso, interessi che sono in una crisi storica che impone coraggiose scelte risanatrici o distruttrici: ma perché, allora, non fare di questi interessi e dei modi di tutelarli e promuoverli, salvandoli e ponendoli al centro della democrazia di domani un grande tema di dibattito politico, di vero dibattito politico? Dopotutto, una cosa è chiara: tra gli oscuri dubbi che la maggioranza di destra nutre nel suo seno, una certezza risplende: il problema dei ceti medi e bassi è uno solo, come prendere i loro voti ingannandoli e illudendoli, al resto pensa la libertà liberale (e se necessario anche un po’ illegale, o almeno, per parlar bene, anomica).

Diciamo, più in generale: l’epoca che viviamo è straordinariamente adatta, per le sue intrinseche contraddizioni e per le grandi trasformazioni in corso, ad una seria discussione che metta capo ad un progetto riformatore tale da attirare l’attenzione, inducendoli a nuove scelte, i milioni di cittadini ed elettori d’ogni età che ci troveremo di fronte come elettori politici, quando si deciderà se l’Italia dovrà chissà per quanto tempo inabissarsi nella degradazione dei vari berlusconismi, o potrà riprendere il cammino verso lo sviluppo, il benessere, la giustizia, la libertà, la modernità vera (non quella cialtrona e "da bere") e la democrazia diffusa e vitale. In altre parole, materia per individuare e proporre grandi riforme, ai riformisti e riformatori, certo non manca.

In altri paesi dell’Occidente, Stati Uniti in primo luogo, il dibattito sui problemi di fondo del nostro tempo, sulla crisi della democrazia, sul come affrontare l’avvento di nuove masse, interne ed esterne, al bisogno di benessere e di sicurezza in un epoca in cui l’alternativa socialista tradizionale e comunista non esiste più; come in altre parole, affrontare il problema classico della democrazia di oggi, l’ardua connessione tra l’indiscutibile inevitabilità dell’economia di mercato e l’assoluta necessità di uno Stato sociale (detto molto in breve e semplice, di questo si tratta), come affrontare le tremende contraddizioni create dalla globalizzazione e dalla sua interpretazione distruttiva dei confini tra libertà e prevaricazione, ricchezza e potere, imposta dal falso, efficiente ed ottuso liberalismo dominante, ma forse già in crisi politica e ideale. Di questa complessa discussione, arrivano da noi informazioni larghissime, e non mancano contributi italiani originali, il dibattito in realtà, è dovunque aperto. Ma stenta a uscire dallo stato di analisi culturale, politologica, storica, di aspirazione ideale, non è ancora diventato politica: quasi che le nostre élites del centro sinistra abbiano paura del concreto, non sappiano come affrontarlo o per poco interesse, o per timore di scontentare questo o quello, di perdere o di non acquistare consensi. Come se i consensi possano acquistarsi o conservarsi offrendo invece agli elettori una mostra itinerante di intricati modelli di schieramento, con annessi dibattiti.

Perché mai i riformisti e i riformatori non si danno carico, davvero e non a parole, di tradurre quei tali grandi temi politici (che loro sanno benissimo quali siano), nel linguaggio d’una proposta di riforme concrete e compatibili con la nostra realtà? Possiamo davvero trascorrere tutto il poco tempo che ci resta a chiacchierare sul primato della politica sulla società civile, o viceversa, o sulle possibili forme astratte delle alleanze e liste elettorali?

Oppure, a esibire eroici impegni in quella riforma, imponente certamente, ma di cui (sia consentito dirlo sommessamente) nessuno in realtà sente il bisogno, quella splendida evasione dalla dura realtà, quell’affascinante ubriacatura di inutile grandezza, che è la "riforma costituzionale"?

La Costituzione del ‘48… la sola bella cosa che c’è ancora in Italia, a parte i monumenti!

di Giovanni Ferrara

da www.libertaegiustizia.it

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