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Lo stato ebraico ed i suoi confini
10.01.2004

Lo stato ebraico e i suoi confini
Approfondire il confronto. L'impegno della Fondazione Di Vittorio.

Nell’ambito della tavola Rotonda su “L’idea di Nazione: genesi, sviluppo, specificità nell’ambito dell’ebraismo”, di cui sono stati promotori la Fondazione Di Vittorio e la Comunità ebraica di Roma, è emerso come impegno congiunto la volontà e l’interesse ad approfondire, in una prospettiva storica, i principali nodi teorici e culturali scaturiti dalla discussione.
I concetti di identità, uguaglianza, cosmopolitismo letti ed interpretati relativamente al binomio uguaglianza-diversità, costituiscono certamente un momento di confronto e di riflessione sulla identità dello stato ebraico.
Parallelamente riveste particolare importanza la definizione del concetto di spazio pubblico da cui è imprescindibile l’analisi della religione come struttura della società, tema che in prospettiva si inserisce nella definizione di una nuova dimensione europea in cui centrale è la dicotomia tra i due modelli di sviluppo economico, arabo l’uno ed israeliano l’altro, stante le forti differenze e le linee di confronto.

La dottrina che ha presieduto alla nascita di Israele è il sionismo, un movimento paradossale, prodotto della lunga memoria del popolo ebraico che si propone come la continuazione e la conclusione logica della storia di questo popolo; ma allo stesso tempo esso rappresenta la rottura con la tradizione, una fuga in avanti una sfida ed una rivoluzione.
Prodotto dell’emancipazione, dell’Illuminismo, della primavera dei popoli, il sionismo si appoggia al movimento delle nazionalità, al liberalismo, al grande sogno europeo figlio della Rivoluzione francese, ma soprattutto al socialismo, oltre ad essere l’espressione della disillusione emancipatrice, una reazione di disinganno, di umiliazione, di paura a trasformare una memoria storica e una tradizione nazionale in movimento politico.
Fondatore del sionismo politico Herzl sosteneva che la questione ebraica non era né di ordine sociale, né di ordine religioso, ma era una “questione nazionale che non poteva essere risolta se non trattandola come una questione di politica mondiale, perché fosse discussa e regolata dalle nazioni civile del mondo, riunite a consiglio”. La soluzione da lui proposta era che gli ebrei si vedessero “accordare la sovranità di una parte del globo sufficientemente grande per soddisfare le legittime esigenze di una nazione”.
Ne “Lo Stato ebraico” Herzl enuncia il suo programma, la formazione di una società ebraica entro i confini di un proprio Stato, con distinta personalità internazionale, capace di accogliere gli ebrei di tutto il mondo che non volessero o potessero assimilarsi con le popolazioni in mezzo alle quali vivevano. Il movimento sionista si colloca infatti nella china di esasperato nazionalismo e antisemitismo che caratterizza la fine dell’Ottocento in Europa: i progrom russi e la campagna antisemita esplosa in Francia in occasione dell’Affare Dreyfus scuotono la coscienza ebraica e all’assimilazione si sostituisce l’emancipazione o meglio l’ “Autoemancipazione” (Pinsker).
Ed è su impulso ed iniziativa di Hertzl che nel 1897 ,“dopo 1800 anni di esilio”, il popolo ebraico si riunisce a Basilea “allo scopo di ricostruire la loro Nazione”. Si realizzava così idealmente l’unità del popolo ebraico in attesa del ritorno alla terra di Sion, mentre nel Congresso veniva formulato il programma sionistico e la fondazione dell’Organizzazione Sionistica.
Il 14 maggio 1948, appena poche ore prima che scadesse il mandato britannico sulla Palestina, Ben Gurion proclamò alla presenza dei delegati del Consiglio nazionale ebraico rappresentante del giudaismo palestinese e del movimento sionistico mondiale, la costituzione dello stato di Israele. Si realizzava così il voto espresso nel 1897 dal primo Congresso sionista che aveva rivendicato per il popolo ebraico il diritto alla rinascita nazionale nella terra degli antichi padri: un diritto riconosciuto dal governo inglese con la Dichiarazione Balfour del 1917( con il riconoscimento della Palestina come National Home del popolo ebraico), riconfermato dalla Società delle Nazioni ginevrina al momento di affidare il “mandato” sulla Palestina alla gran Bretagna e ancora ribadito dalle Nazioni Unite con la decisione del 29 novembre 1947.
Le direttrici entro cui si evolve la storia dello Stato ebraico sono la paura dell’annullamento dello Stato Israeliano e dall’altro il confronto storico con le altre realtà mediorientali entro il cui confine nasce il suo Stato di cui è evidente l’eccentricità. Ed è in questo contesto che va inserita la storia del conflitto arabo –israeliano e le radici dell’attuale scenario. A partire dalla “linea verde” dell’armistizio del 1949, al conflitto del 1967 (occupazione da parte israeliana dei territori della Palestina ad ovest del Giordano e della striscia di Gaza), sino alla guerra del Kippur e passando attraverso la prima e la seconda Intifada, ma anche attraverso gli accordi di Oslo del 1994 ed il fallimento delle trattative di Camp David, che si arriva alla costituzione del muro in Cisgiordania.
La questione del muro è intrinsecamente legata alla definizione dei confini dello “Stato degli ebrei” e quindi alla sua storia.
Quello che viene definito dai suoi fautori “Fence”, “separation barrier” o ancora “security fence” è una barriera di circa 600 km che va a dividere in due la Cisgiordania con l’annessione di circa il 40% del suo territorio da parte di Israele.
Questo progetto divide non solo la Comunità internazionale (infatti l’Onu ha approvato due risoluzioni in cui si chiede al governo israeliano di bloccarne la costruzione in quanto in “contraddizione con le principali norme del diritto internazionale”), ma lo stesso Israele; infatti se da una parte il progetto è sostenuto da una parte della sinistra israeliana che lo vuole sul tracciato della linea verde, ossia quella del cessate il fuoco del 4 giugno 1967, in ossequio al principio dei “due popoli due Stati”, dall’altro esso è fondamentalmente avversato dalla destra ed in particolare dal partito nazional-religioso Mafta e dal consiglio dei coloni che vi vedono una minaccia politica ed un impedimento per la sicurezza con il timore di rimanere di fatto isolati e tagliati fuori da Israele.
La sinistra israeliana artefice di tale progetto lo propone in antitesi alla proposta dell’Olp di un unico Stato secondo quanto richiesto dalla Dichiarazione di Algeri del 1988, ed individua nella costruzione di questa barriera una difesa ed una prevenzione degli attacchi palestinesi(l’ambasciatore israeliano all’Onu Dan Gillerman ha affermato che “la nostra barriera è un sistema di difesa contro gli attacchi dei kamikaze”), ma allo stesso tempo vi vede la garanzia di un mantenimento della “maggioranza etnica degli ebrei” nello stato di Israele (al fine di evitare che i palestinesi divengano la maggioranza all’interno dei suoi confini).
Tuttavia il tracciato del muro, la cui costruzione è stata annunciata nel marzo 2003 alla vigilia dell’attacco all’Iraq da parte di Sharon, non segue la linea verde, ma tende a modificarla radicalmente compromettendo la continuità territoriale della Cisgiordania, seguendo un principio guida che sembra essere quella di “annettere più territorio possibile con meno popolazione possibile”.
Importante è poi sottolineare come nella Road Map, linea guida della creazione dello stato palestinese nel 2005, non si accenni al muro.
Il valore geopolitico della “separation barrier” sembra essere quello della costituzione di un “Grande Israele” e la corrispettiva liquidazione del “principio dei due Stati” e dell’Accordo di Ginevra.

Maria Paola Del Rossi



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