25.12.2004
Per conoscere Riccardo Scarfatti INTERVENTO AL CONGRESSO DI FONDAZIONE DELLA MARGHERITA Parma 23 marzo 2002 Riccardo Sarfatti
Il 1°febbraio ero a Oslo, in un viaggio di lavoro per la mia azienda, per incontrare una persona, consulente IBM, con cui intendevo iniziare dei rapporti commerciali. Durante il nostro colloquio il mio interlocutore iniziò, ad un certo punto, a fare degli ambigui e poco comprensibili riferimenti al "Made in Italy", delle allusioni ironiche, non esplicite.
Per me e per la mia azienda, il Made in Italy è un riferimento importante, quasi sacro; per tutta la vita ho lavorato dentro e per il Made in Italy; quel Made in Italy moderno e avanzato che ha così tanto contribuito alla attuale immagine del nostro paese nel mondo, così diversa da quella vecchia e stereotipata anacronisticamente ancorata alla bellezza geografica del nostro paese, ai suoi centri storici, alle sue tradizioni, ai suoi cibi, al flolklore dei suoi mille campanili, ai suoi paolorossi e robybaggio.
Il Made in Italy moderno, al quale intendo riferirmi, è quello che ha saputo fare sempre innovazione, anche quando le risorse a sua disposizione erano limitate, e anche in assenza di una valida politica per la ricerca (dove tra l'altro siamo tra gli ultimi in Europa e nel mondo sviluppato); un'innovazione che ha saputo coniugare la tecnologia con la funzionalità , la qualità con la bellezza. Abbiamo sempre saputo ingegnarci per secoli, sicché la nostra conoscenza si è così arricchita della qualità del nostro fare, divenuto elemento costitutivo, arrivando perfino a modificare e caratterizzare il nostro DNA; un DNA che il mondo ci riconosce e che legittima un nostro preciso ruolo nel processo di globalizzazione in corso.
Questo Made in Italy moderno e innovatore, che sinteticamente si può riferire a Moda e Design, ha dato molto al nostro paese, sia con il contributo alla bilancia commerciale grazie alla grande quota di export, sia - soprattutto - per l'incommensurabile contributo all'aggiornamento e al rinnovamento della nostra "immagine".
Per queste ragioni l'ironia del mio interlocutore norvegese mi infastidiva e volendo capire di più, gli chiesi di essere maggiormente esplicito. Al che, dimostrando di essere incredibilmente informato sulle vicende italiane, mi parlò di quella che egli interpretava come l'ultima e più nuova "originalità " italiana, puntando il dito sulle nuove norme relative ai provvedimenti sul falso in bilancio, sulle rogatorie internazionali retroattive, sullo scudo fiscale, o alle posizioni sul mandato di cattura europeo o sul conflitto d'interesse. Sosteneva in buona sostanza che tali provvedimenti gli erano sembrati così "anomali" rispetto ai valori e ai comportamenti acquisiti nei paesi europei e nel mondo più sviluppato, da ritenere che tutto ciò autorizzasse l'ìdentificazione, effettivamente, di un nuovo Made in Italy.
Mi sentii colpito, profondamente, nell'intimo; ritornai in albergo e mi misi a scrivere di getto un documento, che qualche giorno dopo, discutendone con alcuni amici, decidemmo di intitolare "Proud to be Made in Italy". Sentivo una spinta fortissima a fare qualcosa che mi consentisse di uscire dalla rassegnata accettazione di ciò che ormai da tempo mi sembrava inaccettabile. Nello scrivere mi misi a riflettere anche sul mio ruolo individuale di imprenditore, ma anche sul mio ruolo collettivo e sociale di Presidente di un'Associazione di Confindustria e di Vicepresidente di una Federazione. E la riflessione mi fece apparire inaccettabili i silenzi di Confidustria, o addirittura il suo sostegno, su tutto ciò che era apparso "anomalo" persino al mio interlocutore norvegese. Guardando le cose da lassù, mi sembrò impossibile che in Italia non ci fosse un'imprenditoria fortemente turbata dal fatto che alcuni grandi valori e alcuni grandi principi, quelli stessi che spesso vengono solennemente ricordati e di cui ,altrettanto spesso, ci si dichiara strenui sostenitori, fossero così palesemente negati.
Il ruolo sociale dell'impresa, il valore di un mercato effettivamente "libero", in cui tutti possano competere, indipendentemente dalle posizioni storicamente acquisite, in un quadro di legalità , di regole di riferimento, di fairness, di trasparenza ecc. Mi domandai se omissioni e silenzi non fossero il segno del riemergere di una arcaica concezione del ruolo dell'imprenditore, una concezione vecchia di tempi che forse troppo velocemente avevamo giudicato passati; se quei silenzi non nascondessero posizioni fortemente arretrate, basate sulla concezione di una imprenditoria che per il suo sviluppo ritiene ancora di aver bisogno di assistenze, di privilegi, di barriere, di protezioni; ancora una volta tesa alla ricerca di scorciatoie ritagliate sulla raccomandazione, sull'aiuto della conoscenza "particulare", sull'utilizzo di strumenti di concorrenza sleale, come il lavoro nero o l'evasione fiscale; su intrecci poco chiari tra business e politica, come se Tangentopoli fosse passata senza nulla modificare.
La mia riflessione andò anche al ruolo della Piccola Media Impresa (PMI) e alla sua presenza all'interno della Confindustria, nonché alla democrazia interna di questa associazione, alla sua rappresentatività , alle sue politiche industriali; temi che devono essere assolutamente affrontati all'interno della stessa Confidustria, sperando che se ne creino le condizioni e si aprano i necessari spazi.
Dopo quei giorni in Norvegia, durante i mesi di febbraio e marzo, si è poi sviluppato lo scontro sull'art 18 e mi arrivò la lettera di Assolombarda, con la richiesta di sottoscriverla e inviarla a Berlusconi; una lettera "tipo", uguale per tutti - come se gli imprenditori non avessero una propria testa e non fossero individualmente capaci di scriverne una propria - chiedendo di tenere duro sulle modifiche all'art. 18, ritenendole decisive per la modernizzazione del paese.
Fu così che decisi di inviare al Presidente del Consiglio, una mia lettera, di segno completamente opposto, che è poi stata riportata da qualche organo di stampa; dato che è molto breve, ve la leggo integralmente. "Al Presidente del Consiglio on. Berlusconi. Oggetto: art. 18. La nostra azienda le chiede di recedere dall'iniziativa di modifica dell'art. 18 assunta dal Governo, ritenendola non decisiva nel processo di modernizzazione e di crescita dell'occupazione, che comunque non potrà avvenire in un clima di scontro con le forze sociali e sindacali. Con osservanza".
Perché il legame che si voleva forzosamente creare tra un così limitato provvedimento e la modernizzazione del paese, mi sembrava e continua a sembrarmi del tutto inaccettabile e improponibile. Condivido invece il sintetico giudizio di Habermas, per il quale la modernizzazione è stata sin qui caratterizzata da "un deficit di razionalità " e che perciò la fase nella quale ora viviamo, che è stata definita della post-modernità , deve essere caratterizzata da uno sforzo volto a colmare questo deficit. La nuova modernizzazione del paese non può che consistere in un processo assai complesso, nel quale certamente rientra la necessità di una diversa organizzazione del lavoro e, indissolubilmente, una revisione ampia degli istituti del cosiddetto Welfare. Non ha infatti alcun senso ipotizzare che possa esservi modernizzazione al di fuori di un miglioramento della qualità della vita, per chiunque; di una riduzione, innanzitutto per i più deboli, di quell'incertezza che certamente la globalizzazione tende a portare con sé; di garanzie di una vita che presenti requisiti di dignità in tutte le sue fasi. Che modernizzazione sarebbe quella che non raggiungesse questi risultati? Credo che soltanto procedendo in questa direzione, potrà trovare effettiva soluzione la grande questione della flessibiltà , una vera grande necessità per le imprese. Innovazione e qualità sono le vere carte che può giocarsi l'impresa italiana, nella grande partita mondiale che presuppone grandi capacità di ricerca e di sperimentazione e che pertanto presenta grandi rischi e nessuna certezza dei risultati. Allora, anche da questo punto di vista, appare evidente la necessità di ammortizzatori sociali capaci di tutelare e garantire coloro che si trovassero a dover lavorare in una nuova situazione di elevata flessibilità ; facendolo nel miglior modo possibile, in tutte le diverse fasi e in tutte le diverse condizioni di vita.
E' ormai del tutto chiaro come nulla di simile fosse presente nelle posizioni del Governo e nella sua proposta di deroghe all'art.18. Mentre è apparsa assai evidente la posizione ideologica, strumentale, tutta politica, che stava sotto quella proposta: si voleva, e si vuole, una sconfitta evidente e clamorosa del mondo del lavoro. Probabilmente da tempo in alcuni settori politici e imprenditoriali covava la voglia di "tornare indietro", si potrebbe forse dire di "reagire", rispetto ai miglioramenti conseguiti nell'ultimo decennio dal mondo del lavoro. E alcuni hanno pensato di poter infliggere, ora, in condizioni politiche ritenute più favorevoli, una dura sconfitta a quel mondo, una sconfitta umiliante. Altro che riformismo ! E per questo si è attaccata direttamente, e unicamente, una delle sue bandiere: perché, da sempre, strappare la bandiera dell'altro, calpestarla, è il segno più evidente della sconfitta e dell'umiliazione. E che queste fossero e siano le vere intenzioni emerge con grande chiarezza da questa pubblicazione che ho nelle mani. Una pubblicazione distribuita l'anno scorso durante le Assise di Confindustria. Si tratta della "Indagine sulle piccole imprese italiane", dove a pagina 19 (laddove sono indicati, in una tabella, i fattori che limitano la competitività delle PMI) è scritto che il fattore "scarsa flessibilità del lavoro e costo eccessivo rispetto alla concorrenza internazionale" ha un peso pari al 16,8%, soltanto del 16,8%! Non un peso tale, perciò, da farne elemento unico e centrale di scontro: quale più chiara dimostrazione della evidente strumentalità con cui il Governo e l'attuale gruppo dirigente di Confindustria, hanno voluto procedere? Mi sembra che in questa posizione vi sia un atteggiamento del tutto contrario a ciò che qualsiasi persona di buon senso, che ha vissuto nel nostro paese negli ultimi 50 anni, dovrebbe avere, essendo del tutto evidente che la modernizzazione del nostro paese è stata resa possibile dallo sforzo, in realtà congiunto, di imprenditoria e lavoro. L'apporto positivo portato è stato, almeno, dello stesso peso, mentre forse "uguali" non sono stati i sacrifici compiuti e i benefici ricevuti ! E allora, come persone di buon senso e come interpreti del "senso comune", non possiamo accettare alcuna posizione che voglia tornare indietro o che voglia ripristinare possibilità di arbitrio verso il lavoro, che voglia creare condizioni, o climi, all'interno dei quali all'"uomo imprenditore" sia consentito il diritto di essere "diverso", da poter decidere, a suo arbitrio, senza giusta causa - appunto - della vita di un altro uomo, "l'uomo lavoratore".
E', quindi, indispensabile lavorare onde realizzare un nuovo clima, senza il quale nessuna modernizzazione è possibile. Dentro questo nuovo clima ognuno deve fare la sua parte. E certo la Margherita può avere un ruolo importante; come può averlo l'Ulivo. Mi sento di dirlo anche se non faccio parte né della Margherita, né di alcuna altra forza politica. Per il nostro paese è importante, nella nuova logica maggioritaria, che ci sia un Ulivo che sappia effettivamente raccogliere tutte le spinte realmente riformiste e innovatrici che vengono dal paese e in cui, diversamente da come è stato nel passato, anche l'imprenditore che crea valore, in una prospettiva di modernizzazione, possa sentirsi non più a disagio, bensì accolto in una casa che sia anche sua. Vorrei che in un Ulivo così fatto ci fosse spazio per tutti i lieviti che possono far lievitare questo grande pane di cui certamente il nostro paese ha un grande bisogno. E vorrei anche che ci fosse la capacità di elaborare e proporre al Paese un grande programma di nuova modernizzazione, capace di volare alto, ma anche di scendere nel concreto di alcune questioni sentite da tutti. L'Ulivo dovrebbe avere le capacità , in tempi sufficientemente ravvicinati, di proporre con forza e chiarezza dall'opposizione ciò che non è stato fatto, o non si è avuto il tempo di fare, dal Governo. Mi permetto, per chiudere, di ricordare alcune questioni aperte e fornire alcuni spunti. La questione fiscale, prima fra tutte. Perché non cominciare a vedere nel fisco un possibile strumento di modernizzazione: cioè un fisco che possa essere anche ncentivante, e premiante, per chi è capace di fare concreti passi per uscire dal nanismo, cioè per chi procede ad aumenti del patrimonio aziendale, per chi produce ricerca e formazione, per chi incrementa i livelli di esportazione, per chi crea nuova occupazione. E, a questo proposito, perché non riproporre ciò che Francesco Rutelli propose in questa stessa sala l'anno scorso al Convegno di Confindustria: la diminuzione a tempi brevissimi almeno del 30% dell'IRAP ? Si tratta di una cifra importante delle entrate dello stato, ma non impossibile da reperire: poco più dell'1% del totale delle entrate. Perché non incalzare anche su questo terreno il governo? La questione di un effettivo sostegno alle aziende esportatrici. Noi oggi perdiamo competitività non tanto per i "costi del lavoro", che sono ancora un poco più bassi di quelli dei nostri concorrenti occidentali più diretti, ma perché essi hanno sostegni da parte dei loro "sistemi paesi" assai più solidi, senza paragone rispetto a ciò che noi effettivamente abbiamo. Questo sostegno richiede capacità di selezionare gli interventi, e di non parcellizzarli in una molteplicità di rivoli. Richiede aiuti effettivi alle aziende, soprattutto a quelle della tipica dimensione italiana (50-100 addetti) che da sole non possono sostenere i costi della globalizzazione. Richiede politiche fieristiche capaci di far fronte agli attacchi dei più forti in un mercato, quello fieristico, del tutto selvaggio. Richiede facilità di accesso al credito e solide garanzie assicurative. E richiede tant'altro, ma il mio tempo è certamente finito.
Voglio finire con un appello agli imprenditori che hanno realmente a cuore il Sistema Italia, e non solo i loro particolari e personali interessi: che facciano sentire la loro voce, che si facciano promotori di un patto, tra forti e deboli, tra grandi e piccoli, in cui si sancisca che alla base di ogni confronto debba essere solidamente posto il principio della coesione sociale, come presupposto indispensabile per la modernizzazione economica, sociale, culturale e politica del nostro paese. Auguri per il vostro Congresso di fondazione, auguri e complimenti a chi ha promosso e voluto questa nuova realtà della politica italiana, auguri a tutti voi che date il vostro impegno per realizzarla.
Riccardo Sarfatti imprenditore, amministratore delegato LUCEPLAN s.p.a., presidente di Assoluce, vicepresidente federlegno Arredo, presidente Consiglio Nazionale associazioni del Design (CNAD)
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