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Note sul Partito Comunista della Federazione Russa
2.12.2007
www.resistenze.org - popoli resistenti - russia - 22-11-07 - n. 204

Il Partito Comunista della Federazione Russa
 
Alcune note sulla sua storia e i suoi programmi*
 
Mauro Gemma
 
Nell’agosto del 1991, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica si disintegrava. Negli ultimi giorni di quel mese, con l’interdizione dell’attività del partito, accompagnata dall’annuncio di “autoscioglimento” pronunciato da Mikhail Gorbaciov, veniva scritto l’ultimo capitolo di un declino che allora appariva irreversibile.
 
Eppure già all’indomani del golpe, è andata ricostituendosi quella che, almeno nella fase iniziale, è sembrata una “galassia” di piccoli focolai di resistenza comunista all’imperversare travolgente dell’offensiva controrivoluzionaria.
 
Gruppi e partiti comunisti sono in breve tempo ricomparsi non solo in Russia, ma anche nelle altre repubbliche dell’ex Unione Sovietica.
 
Delle organizzazioni comuniste che si sono ricostituite sul territorio della Federazione Russa, però, l’unica che è riuscita ad affermarsi con un reale radicamento tra le masse, confermando fino ad oggi, pur tra alti e bassi, la sua posizione di seconda forza politica elettorale del paese, è il Partito Comunista della Federazione Russa (PCFR). E’ di questa organizzazione comunista che intendiamo occuparci in questo articolo.
 
Quando nel novembre 1992 la Corte Costituzionale della Federazione Russa poneva fine al processo intentato contro il PCUS, riconoscendo la piena legittimità dell’attività della sua organizzazione russa, il preesistente Partito Comunista della Repubblica Socialista Federativa Russa poteva avviare la propria ricostituzione legale e riattivare le strutture di base.
 
Si chiudeva con un esito a loro favorevole la lunga battaglia ingaggiata dai comunisti russi, sul piano legale, per dimostrare la totale estraneità del partito al golpe dell’agosto 1991, di cui in realtà il PCUS era stato la vera vittima.
 
Con la riacquistata legalizzazione, veniva così premiata anche la coerenza di alcuni tra i massimi dirigenti comunisti (Zjuganov, Kuptzov, Melnikov, Lukjanov, che verranno presto raggiunti dall’ex numero 2 del PCUS Ligaciov) che, per tutto il travagliato periodo della perestrojka, caratterizzato dalle trasformazioni “camaleontiche” di pezzi significativi dell’apparato, non avevano mai operato disinvolti passaggi di campo, neppure nel drammatico momento in cui le forze apertamente antisocialiste conquistavano definitivamente il potere politico.
 
I comunisti che, al momento del riconoscimento giuridico, dichiaravano l’adesione di più di 500.000 militanti del vecchio partito, potevano svolgere nel gennaio 1993 il loro congresso straordinario di “ricostituzione”, dando vita al Partito Comunista della Federazione Russa (PCFR).
 
La “Dichiarazione politica” (la versione italiana del testo integrale in “Quaderni Comunisti”, n. 2, 11/93), approvata alla fine del Congresso del nuovo partito, è caratterizzata da un giudizio severo, ma non liquidatorio dell’esperienza scaturita dalla Rivoluzione d’Ottobre. Le linee di fondo di questa dichiarazione verranno sostanzialmente confermate in tutti i documenti dei congressi del PCFR svolti fino ad oggi.
 
Il partito comunista è definito “il partito che ha sollevato il popolo alla lotta per la giustizia sociale nell’ottobre del 1917, che ha guidato la creazione di una grande potenza”, il partito che “insieme al popolo” ha vinto la II guerra mondiale e ha fatto risorgere l’URSS “dalle macerie”. Allo stesso tempo, vengono denunciate le “grossolane deviazioni dai principi della costruzione del socialismo” individuate nel “dogmatismo dell’ideologia ufficiale, che si è accompagnata alla mancanza di principi dei politicanti” e nella conseguente creazione di “uno strato burocratico privilegiato sempre più rinchiuso nel proprio guscio e staccato dalla vita reale”, responsabile della “sfiducia nella forza creativa del socialismo”, dell’indifferenza, al limite “dell’abulia politica di massa negli anni della perestrojka”. La linea assunta da Gorbaciov viene definita “un tradimento”, che ha avuto come conseguenza “l’eliminazione del PCUS dall’arena politica, lo smembramento dell’URSS e l’arrivo al potere di forze politiche che hanno restaurato il capitalismo nelle sue forme più primitive”.
 
Nella nuova difficile condizione di opposizione politica, il PCFR, pur operando “nel rispetto della Costituzione”, deve manifestare la sua “fedeltà al socialismo, alla libertà e all’uguaglianza, alla giustizia e all’umanesimo”, ispirarsi “alla teoria marxista-leninista” non dogmaticamente, ma sviluppandola “in considerazione delle lezioni della storia e dell’attualità” e basandosi “su una forte democrazia” priva di “deformazioni gerarchiche e burocratiche”, rispettosa “dei diritti dell’uomo” e “della libertà di parola e associazione di tutti i cittadini”.
 
Nella dichiarazione, i comunisti si pronunciano per “l’esclusione dell’estremismo nazionale e religioso, di qualsiasi forma di risoluzione violenta dei contrasti tra le nazioni”, riaffermando la propria fedeltà all’internazionalismo. In tal senso, essi si pronunciano per la ricostruzione di una federazione dei partiti comunisti della CSI (Unione dei Partiti Comunisti – PCUS, che raccoglie tuttora i principali PC dell’ex URSS) e per “l’elaborazione di un programma di azioni comuni che favoriscano la riunificazione dei nostri popoli in un’unica concorde famiglia”.
 
Alcuni mesi dopo, il PCFR affrontava la sua prima prova elettorale e, sorprendendo non pochi osservatori occidentali, riusciva, con un insperato 11% di voti, a dimostrare che la “questione comunista” non era certamente da considerarsi chiusa una volta per tutte. Uno “zoccolo duro” della società russa si dimostrava in grado di resistere all’offensiva controrivoluzionaria che in quegli anni ai più sembrava destinata a depositare definitivamente il comunismo tra le “macerie della storia”.
 
Il progressivo deterioramento, tra il 1993 e il 1995, della situazione sociale ed economica del paese, in seguito alle sciagurate scelte delle elite neoliberali dell’entourage presidenziale e alla svendita della proprietà collettiva, non poteva che favorire l’ascesa della credibilità dei comunisti, che, in quel momento venivano percepiti dall’opinione pubblica non solo come difensori dei diritti sociali dei più deboli, ma come gli unici in grado di contrastare i sempre più invadenti processi di asservimento della Russia alle logiche e agli interessi dell’imperialismo occidentale, il quale, da un lato, strangolava il paese con il debito e, dall’altro, cercava di indebolirlo sul piano geopolitico, mediante il sostegno a tutte le spinte secessioniste che, in molte regioni, stavano mettendo a rischio l’integrità stessa della Federazione Russa.
 
Nel gennaio 1995 il Congresso del partito, accanto alla riaffermazione dei capisaldi ideologici contenuti nella “Dichiarazione politica” del congresso di ricostituzione, come la fedeltà al “marxismo-leninismo”, approvava una sorta di “programma minimo” - basato su principi di “economia mista”, su aperture agli esponenti della borghesia “patriottica”, su appelli all’orgoglio nazionale e alla contrapposizione dei “valori spirituali russi” all’invadenza culturale dell’Occidente -, che si proponeva di dare impulso ad un blocco “nazional-patriottico” in grado di travolgere un regime minato dalla crescente impopolarità.
 
Determinante, in quell’occasione, fu certamente la posizione assunta dal leader del partito Ghennadij Zjuganov, noto per le sue posizioni ideologiche eclettiche, che cercano di conciliare le radici marxiste-leniniste del comunismo sovietico con elementi del bagaglio culturale specificamente “russo” e che individuano un filo di continuità tra le varie fasi della storia della “potenza russa”, fin dalle sue origini medievali, e l’esperienza sovietica uscita dalla Rivoluzione d’Ottobre.
 
In ogni caso, c’è da riconoscere che proprio la costruzione di un ampio schieramento (Unione delle Forze Popolari-Patriottiche), che vedeva nel PCFR il fulcro della “lotta di liberazione nazionale” dalla colonizzazione occidentale, rappresentò la carta che, alla fine del 1995, permise al partito (che da quel momento si è sempre presentato con il proprio simbolo) di raddoppiare i propri voti (22%) e addirittura, in virtù dei meccanismi elettorali che favorivano la dispersione delle forze più piccole, di diventare la prima forza parlamentare del paese, con 157 deputati (circa il 35% del totale), acquisendo la possibilità, in ragione del meccanismo istituzionale in vigore, di far esercitare alla Duma (il parlamento) un vero e proprio potere di veto nei confronti dei decreti presidenziali, protrattosi per tutta la legislatura.
 
Le elezioni presidenziali del 1996 videro confermata questa tendenza e solo i giganteschi brogli (oggi unanimemente riconosciuti da tutti) e la convergenza su Boris Eltsin di tutti i candidati (compreso l’immancabile Gorbaciov, ridotto a percentuali da prefisso telefonico) presentatisi al primo turno, permisero al presidente russo di essere eletto nel ballottaggio. Soli contro tutti, i comunisti riuscivano a far convergere oltre il 40% dei consensi sul loro leader Zjuganov.
 
Negli anni immediatamente seguenti il PCFR, che nel frattempo aveva anche conquistato la guida di importantissime regioni della federazione, sembrò attenersi rigorosamente alla linea che intendeva privilegiare la “questione patriottica” rispetto alla mobilitazione (che pure in alcune occasioni si manifestò) attorno alle tremende questioni sociali che attanagliavano il paese, e al radicamento organizzativo tra la classe operaia (che, quotidianamente, veniva perdendo anche i diritti più elementari di agibilità sindacale). Quest’ultimo aspetto (oggetto in seguito di forti critiche da parte di settori “dissidenti” interni) contribuì ad allentare in misura rilevante i legami con la base sociale che, in epoca sovietica, aveva rappresentato il serbatoio della forza organizzata dei comunisti.
 
La scelta “nazionale” sembrò essere ancora premiata quando, in seguito alla grave crisi economica del 1998, che portò la Russia sull’orlo della bancarotta, Eltsin fu costretto a consegnare la guida del paese a Evghenij Primakov, personalità che sembrava incarnare più di altri le aspirazioni dei settori “patriottici” che si opponevano all’orientamento filo-occidentale assunto dopo il 1991 e che auspicavano il ritorno della Russia ad un ruolo di primo piano nella scena internazionale. In quell’occasione, i comunisti, che con Primakov avevano instaurato un rapporto di reciproca fiducia, non ebbero esitazioni a dare appoggio esterno alla compagine che allora venne formata, con l’inserimento di uomini a loro vicini in ministeri di una certa importanza.
 
L’esperimento di Primakov durò poco. Certo, i primi provvedimenti economici, che puntavano al rilancio dell’ “economia reale” e ad intaccare gli interessi delle grandi oligarchie, portarono ad un relativo risanamento del bilancio del paese. Ma, le pressioni degli occidentali che, nello scatenare la loro aggressione alla Jugoslavia nella prima metà del 1999, avevano assoluto bisogno almeno di una posizione “defilata” della Russia, alleato storico di Belgrado, e gli intrighi del clan che si raccoglieva attorno al presidente della Federazione, spinsero Eltsin a chiedere le dimissioni del premier e a preparare quella fase che, conclusasi con la nomina di Vladimir Putin, avrebbe dovuto, in vista della scadenza del mandato presidenziale, garantire un “passaggio morbido” delle consegne a una squadra “affidabile” in grado di garantire la prosecuzione delle linee guida del regime.
 
E’ noto come andò a finire. Putin non si è certo dimostrato un docile allievo di Eltsin. Ma è innegabile che l’avvento di Putin ha inferto un colpo anche al programma “nazional-patriottico” che, fino allora, aveva caratterizzato gli orientamenti della sinistra russa che si raccoglieva attorno al PCFR.
 
Sul piano ideologico, la campagna di Putin fu fin dall’inizio improntata ad una netta cesura con quelle componenti di elite della società russa che, a partire dai primi anni della “perestrojka”, avevano cercato di forzare sui processi di “occidentalizzazione” del paese, apparendo spesso agli occhi dell’opinione pubblica come una sorta di “quisling” al servizio di potenze coloniali (i cosiddetti “democratici” che continuano ad essere osannati ancora oggi in Occidente, ma ormai quasi completamente emarginati nella società russa). Putin ebbe la capacità (allora la sua “conversione” al patriottismo apparve a molti largamente strumentale e funzionale esclusivamente a far fronte ai disastri di immagine provocati da Eltsin) di appropriarsi di molti degli argomenti avanzati dall’opposizione “patriottica”, conquistando credibilità tra un’opinione pubblica ormai esasperata da anni di vassallaggio coloniale.
 
Gli effetti dell’operazione politica messa in atto da Putin si videro già nelle elezioni del 1999, quando, sebbene i comunisti aumentassero ancora i loro consensi fino a quasi il 25% dei voti, Putin riuscì, con il 23% ottenuto dalla sua formazione (“Unità”), a evitare la sconfitta del regime, data per scontata fino a poche settimane prima. Inoltre, con il superamento dello sbarramento elettorale da parte di un certo numero di piccoli partiti, i comunisti subivano una drastica riduzione dei loro parlamentari, che li privava della possibilità di creare ostacoli all’iniziativa del presidente della repubblica.
 
Le elezioni presidenziali, che coincidevano con l’uscita definitiva dalla scena politica di Boris Eltsin, sancirono la vittoria di Putin fin dal primo turno (53%), con Zjuganov che, comunque, riusciva a raggiungere quasi il 30%.
 
Da quel momento prese avvio un nuovo capitolo della politica interna ed estera della Russia, che ha marcato fin dall’inizio la discontinuità della presidenza Putin rispetto alla gestione di Eltsin.
 
Per porre un freno alle tendenze separatiste, che stavano sottoponendo la Federazione Russa a un processo di disgregazione analogo a quello subito dall’URSS, Putin non si è limitato ad intervenire con energia in Cecenia, ma ha avviato la riorganizzazione del sistema federale, attraverso la creazione di sette macroregioni, con a capo governatori direttamente eletti dal presidente, con il risultato di limitare fortemente le pretese dei potentati locali, appoggiati dalle “lobby” straniere interessate al controllo delle materie prime.
Abbiamo già fatto notare come tale processo sia stato accompagnato da un’operazione di recupero dei valori “patriottici”, sostanzialmente gli stessi a cui faceva riferimento l’opposizione “nazional-patriottica (con frequenti riferimenti anche al passato sovietico e ad alcuni aspetti della stessa esperienza staliniana), che erano stati umiliati nel decennio eltsiniano da una pratica di totale subordinazione, anche culturale, all’Occidente, che aveva provocato una vera reazione di rigetto da parte di amplissimi strati dell’opinione pubblica.
 
Da subito Putin ha dato avvio ad una politica internazionale (attraverso l’elaborazione, nell’estate del 2001, della cosiddetta “Dottrina della politica estera della Federazione Russa”) che si propone esplicitamente di mettere al primo posto la difesa degli “interessi nazionali” del paese e di contribuire alla costruzione di un mondo multipolare, e che è entrata sempre più frequentemente in rotta di collisione con gli indirizzi strategici dell’imperialismo USA.
 
Inoltre, Putin non ha mai ceduto alla richiesta di procedere al definitivo scorporo e alla privatizzazione delle più importanti tra le aziende strategiche, come “Gazprom”, il gigante del gas, oppure “Transneft”, che esercita il controllo sull’immensa rete di trasporto delle risorse energetiche del paese, ma, con il passare degli anni ha rafforzato il controllo delle aziende di Stato sulle immense risorse energetiche russe, scontrandosi con gli enormi interessi delle grandi compagnie multinazionali.
 
Con il procedere del tempo, in modo inesorabile, abbiamo assistito alla progressiva emarginazione dai gangli vitali del potere di quasi tutti quei personaggi, che avevano legato le loro fortune politiche ai destini di Eltsin. Molti dei magnati (Berezovskij, Gusinskij, Khodorkovskij, ecc.) che, approfittando delle privatizzazioni selvagge, avevano costruito imperi economici, attraverso la dilapidazione del patrimonio pubblico e la costruzione di un rapporto privilegiato con l’Occidente, sono stati emarginati dai processi decisionali e, in alcuni casi, addirittura perseguiti penalmente, in un clima di generale consenso popolare.
 
Le iniziative di Putin hanno avuto un impatto impressionante sull’opinione pubblica, e in particolare tra gli strati meno privilegiati del paese.
 
Dmitrij Jakushev, brillante intellettuale marxista russo, ha scritto: “Negli anni ’90, la Russia era un paese senza un bilancio statale, di fatto senza uno stato unitario, senza esercito, con un enorme debito estero, che sembrava impossibile restituire, con regioni che non facevano più riferimento al centro e che addirittura avevano cominciato ad emettere una propria moneta, con una direzione esterna esercitata dal FMI, che controllava il budget e tutte le spese del governo centrale. La guerra in Cecenia rappresentava la continuazione della politica di annientamento della Russia in quanto stato unitario …. Se non ci fosse stato Putin, non ci sarebbe più la Russia. Non ci sarebbe più un’industria, né la classe operaia, e neppure “ordini del giorno” su cui qualche sinistra possa intervenire. Il sud del paese sarebbe controllato dai banditi e a guardia del petrolio e dei gasdotti ci sarebbero le truppe della NATO…Questa non è fantasia, perché allora le cose stavano proprio così”.
 
Così, la progressiva emarginazione dal potere di diversi esponenti del passato entourage, accompagnata dall’attuazione, nel corso di tutto il primo mandato di Putin (2000-2004), di una serie di misure severissime contro gli oligarchi particolarmente invisi all’opinione pubblica, hanno in definitiva privato il PCFR di molti degli argomenti che avevano nutrito la sua propaganda nel periodo eltsiniano.
 
Inoltre, una congiuntura, segnata dalla lievitazione dei prezzi delle forniture energetiche nel mercato mondiale è venuta favorendo progressivi segni di miglioramento economico e riducendo drasticamente, fino ad azzerarla, la dipendenza finanziaria dall’Occidente e dagli organismi economici internazionali. Il risanamento del bilancio statale ha avuto come primo effetto la normalizzazione del pagamento delle buste paga di milioni di cittadini impiegati o pensionati delle strutture pubbliche, misura certo non “rivoluzionaria”, ma certamente accolta con sollievo dopo il decennio di assoluta “precarietà” vissuto precedentemente.
 
Tutto ciò non poteva non avere conseguenze sul PCFR e sulla sua rete di alleanze. Abbiamo assistito così al distacco dall’ “Unione Patriottica” di molte personalità e forze “indipendenti” che hanno rapidamente raggiunto lo schieramento filo-presidenziale. E’ in tale contesto (con l’avvicinarsi delle elezioni del 2003) che va letta anche l’apparizione sulla scena politica russa del movimento “Rodina” (Patria), una miscela di componenti “socialdemocratiche” e “nazionaliste” (in alcuni casi violentemente xenofobe), che raccoglieva molti esponenti e componenti della vecchia alleanza che si era venuta formando attorno al PCFR.
 
Nello stesso tempo, il PCFR doveva affrontare una scissione che allontanava dal partito alcuni personaggi di spicco della sua dirigenza, a cominciare da alcuni governatori di importanti regioni e dallo speaker della Duma, Ghennadij Selezniov.
 
Le elezioni del dicembre 2003 si concludevano con un grave sconfitta del PCFR, che raccoglieva 7.647.000 voti (quasi 8 milioni in meno del 1999), scendendo al 12,6%, con 40 mandati nella quota proporzionale e solamente 8 nei collegi uninominali, e registrando un’autentica “debacle” in quelle regioni della Russia centrale, che in passato erano state definite la “cintura rossa”. Allo stesso tempo, il blocco “Rodina” otteneva una grande affermazione. “Rodina”, che ha ricevuto circa 5.500.000 suffragi e il 9,1%, riusciva ad aggiudicarsi una parte considerevole del voto comunista, che in parte confluiva direttamente sui candidati del partito del presidente, “Russia Unita”, frutto dell’unificazione di forze centriste (tra cui quella dello stesso Primakov, che sempre più era venuto riconoscendosi nella “svolta” impressa da Putin), che otteneva il 37,5%. Contemporaneamente veniva praticamente azzerata (7 deputati in tutto) la rappresentanza parlamentare di quelle forze ultra-liberiste e filo-occidentali che avevano avuto la responsabilità del potere durante tutti i primi anni della transizione seguita alla vittoria controrivoluzionaria del 1991.
 
Il dato delle politiche veniva confermato all’inizio del 2004 dal vero e proprio plebiscito (71,2%, con il candidato comunista Kharitonov al 13,7%) che riconfermava Putin presidente della Federazione.
 
Da quel momento per i comunisti è cominciato un periodo di aspro confronto sulle ragioni della sconfitta. A mettere sotto accusa la leadership di Zjuganov fu soprattutto quella parte del Comitato Centrale, la cui personalità di spicco era rappresentata dal Segretario dell’organizzazione di Mosca, Aleksandr Kuvajev. Per questo gruppo, la causa del tracollo comunista era sostanzialmente da ricercarsi nello snaturamento delle caratteristiche di partito di classe, con il conseguente approdo ad una retorica “nazionalista” e interclassista, che rischiava di allontanare il PCFR dalle sue radici. L’assenza di saldi legami con la classe operaia avrebbe fatto si che la polemica dei comunisti russi con il potere (proprio allora impegnato nella lotta senza quartiere per il controllo delle risorse energetiche, contro alcuni potenti gruppi oligarchici), venisse percepita dalle grandi masse come sostanzialmente utile ai gruppi “liberali” che, da destra e sostenuti dall’imperialismo, attaccavano aspramente il “nuovo corso” di Putin.
 
Il duro confronto venne risolto nell’estate del 2004 con l’uscita dal partito di quasi la metà dei componenti del Comitato Centrale e di molte migliaia di iscritti. L’esito della scissione è stato comunque fallimentare, dal momento che il Partito Comunista Panrusso del Futuro emerso dalla scissione non è mai riuscito a scalfire, neanche minimamente, la forza elettorale del PCFR, in tutte le consultazioni parziali che hanno visto la sua partecipazione.
 
Oggi questa formazione starebbe lavorando ad un’ipotesi di riunificazione delle forze comuniste, collocate “alla sinistra” del partito di Zjuganov (spicca fra tutte il Partito Comunista Operaio Russo-Partito Russo dei Comunisti, il cui leader Viktor Tiulkin nel 2003 era stato eletto deputato nelle liste del PCFR).
 
La grave crisi organizzativa vissuta in quel momento portò comunque all’apertura di una fase di riflessione sul radicamento sociale dei comunisti, che ha avuto come conseguenza una rinnovata attenzione ai temi più squisitamente sociali, che hanno progressivamente ritrovato un certo spazio nell’iniziativa concreta del partito e nel rilancio della sua presenza tra la classe operaia. Da allora il partito non ha mai modificato il suo atteggiamento di dura contrapposizione verso tutte le iniziative che in materia di politica sociale ed economica, sono state di volta in volta assunte dal governo del paese, non facendo alcuna concessione neppure ad alcune misure destinate nelle intenzioni a sollevare la condizione dei ceti meno privilegiati.
 
Alla fine di settembre 2007, il PCFR ha dato impulso ad un’azione di massa “contro il genocidio sociale”, culminata in manifestazioni che hanno coinvolto, in molte località della federazione, decine di migliaia di cittadini.
 
L’apparizione in Russia nel 2005 di un movimento che affermava di ispirarsi alla “rivoluzione arancione” ucraina, ha aperto anch’esso un dibattito nel partito, circa l’opportunità o meno di sfruttare il coro mediatico (ampiamente amplificato in Occidente) suscitato dall’avvenimento, partecipando ad iniziative che dichiaravano di contrapporsi alla politica “antipopolare” del regime. Su iniziativa, in particolare di esponenti influenti nell’organizzazione della capitale (Bazanjez, Miloserdov Baranov, Ponomariov e alcuni altri), definiti più o meno propriamente “neotrotskisti”, il PCFR ha così aderito ad alcune delle prime azioni di questa opposizione “liberale” (Altra Russia), sostanzialmente capeggiata da una parte della vecchia dirigenza dei tempi di Etsin. Così, i “neotrotskisti” nel PCFR hanno in più di un’occasione preso la parola di fronte ad un pubblico composto prevalentemente da militanti dei partiti “Mela” e “Unione delle forze di destra”, a fianco di personaggi come Garri Kasparov, l’ex premier Kasjanov (cacciato da Putin), la miliardaria prestata alla politica Irina Khakamada o il nazista Eduard Limonov.
 
Il sempre più marcato sbilanciamento delle iniziative di “Altra Russia” su temi graditi agli interlocutori occidentali (il sostegno aperto agli oligarchi “perseguitati”, la strumentalizzazione dell’assassinio della giornalista Politkovskaja, le simpatie manifestamente espresse nei confronti dei settori anticomunisti e antirussi più agguerriti delle vicine Ucraina e Bielorussia, la presenza in piazza del gruppi apertamente fascista dei “nazional-bolscevichi”, l’evidente isolamento dei settori “liberali” dal grosso dell’opinione pubblica russa), hanno gradatamente indotto il PCFR a prendere apertamente le distanze. Recentemente, dopo un’aspra discussione nell’organizzazione moscovita, il gruppo dei “neotrotskisti” è stato addirittura espulso dal partito, con l’accusa di essere parte integrante di quell’opposizione “arancione” che, “nell’interesse della borghesia filo-occidentale”, sta attivamente operando per favorire “la completa occupazione della Russia da parte della NATO”.
 
Nel frattempo, in corrispondenza del crescere dei contrasti tra la presidenza russa e l’Occidente, soprattutto dopo la decisione americana di procedere all’installazione del sistema antimissilistico in Europa centro-orientale, nelle dichiarazioni dei massimi dirigenti del PCFR è sembrata affacciarsi una qualche apertura di credito nei confronti del presidente russo almeno in materia di politica estera, con il sostegno, in sede parlamentare, nei confronti di alcune delle più significative mosse di Putin (durezza del confronto con gli USA, rafforzamento dell’alleanza strategica con la Cina, rilancio dell’iniziativa nello spazio post-sovietico in contrapposizione alle pulsioni filo-atlantiche di alcuni stati, come la Georgia e l’Ucraina).
 
E’ in questo contesto che il PCFR sta conducendo la sua campagna elettorale in vista delle elezioni legislative del 7 dicembre 2007.
 
Le più recenti prove elettorali (nel mese di marzo si è votato per il rinnovo di circa un terzo delle assemblee legislative delle regioni, comprese Mosca e San Pietroburgo) testimoniano di una certa ripresa del partito. Neppure la creazione, dall’unificazione di “Rodina” con altre formazioni di centro-sinistra, di un partito “socialdemocratico” alleato di Putin (Russia Giusta) sembra rappresentare un serio elemento di concorrenza a sinistra per i comunisti, avendo la formazione guidata dallo speaker della Camera Alta, Serghey Mironov, fino ad ora sottratto voti prevalentemente a “Russia Unita” e ad altre formazioni che sostengono il presidente.
 
Inoltre, la decisione di Putin di guidare le liste di “Russia Unita”, nell’evidente intenzione di assumere le redini del governo alla scadenza del suo mandato presidenziale, unita all’introduzione di uno sbarramento elettorale del 7%, potrebbe prefigurare uno scenario elettorale di tipo bipartitico, con una grande affermazione del partito presidenziale e il ruolo dell’opposizione affidato esclusivamente (o quasi) al partito comunista.
 
* testo apparso in "L'Ottobre e noi", curato dal Centro Studi sui problemi della transizione al Socialismo e pubblicato dalla casa editrice La Città del Sole

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