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Violenza e non violenza
8.02.2004

Nel nuovo numero del mensile Una città, in uscita in questi giorni, è contenuta una lunga intervista sui temi della noviolenza, del terrorismo, della sinistra e dei movimenti che qui vi anticipiamo.

per informazioni:

tel. 0543/21422 fax 0543/30421

e-mail: unacitta@unacitta.it

http://www.unacitta.it

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Le estreme conseguenze

Mentre continua il dibattito su violenza e nonviolenza, innescato dopo una sua intervista il 29 ottobre scorso, Sergio Segio riprende la parola.

Le reazioni, scomposte e spesso di stampo stalinista, alla denuncia della presenza di culture violente anche all'interno dei movimenti, non fanno che confermare la necessità di un ripensamento sul comunismo, sull'antagonismo, sul mito della presa del potere. La radicalità, quella sì realmente antagonista, della pratica della nonviolenza. Intervista a Sergio Segio, da tempo impegnato nel volontariato.

Possiamo partire dall’intervista apparsa su Repubblica il 29 ottobre col titolo "Le Brigate rosse sono dentro il Movimento", che tante reazioni ha suscitato…

Guardando al dibattito provocato dalla mia intervista, mi sembra che la gran parte degli intervenuti abbia guardato il dito, anziché la luna che avevo provato a indicare. Pur con importanti eccezioni (penso, ad esempio, a Fausto Bertinotti, a Marco Revelli o Luigi Manconi), ben pochi hanno cioè provato a confrontarsi con il merito delle cose che, problematicamente, avevo posto sul tavolo nella discussione.

Temo che, in effetti, molti di coloro che mi hanno criticato o, più spesso, violentemente attaccato, non siano andati più in là della lettura del titolo. O che, addirittura, siano intervenuti senza aver neppure visto l’intervista contestata. È l’impressione che inevitabilmente mi deriva dalla lettura degli interventi, ad esempio e per limitarmi solo ai più autorevoli, di Rossana Rossanda sul Manifesto, Repubblica e Carta o dell’editoriale di Piero Sansonetti sull’Unità, dove mi si fanno dire, addirittura virgolettandole, cose da me mai affermate. Il travisamento del pensiero e delle parole altrui, magari e talvolta viene fatto in buona fede, ma il risultato non cambia: il dibattito viene sviato dal suo merito specifico, rischiando peraltro di alimentare un linciaggio personale. Tali, in effetti, sono stati i toni utilizzati da molti, in ciò indirizzati dalle interviste del "disobbediente" Luca Casarini e di Piero Bernocchi, da molti lustri portavoce dei Cobas.

Anche questa variante fa parte della cultura della demonizzazione dell’avversario, propria delle culture politiche autoritarie.

E, tuttavia, proprio questi toni, la campagna di insulti e calunnie che quelle prime repliche hanno prodotto e innescato mi pare una conferma neppure tanto indiretta del tema che avevo cercato di proporre. Che era ed è certamente quello della presenza nel movimento di militanti delle BR e comunque di gruppi propugnanti la lotta armata e la violenza politica, e dei rischi a ciò connessi: ho detto e penso che le BR sono dentro e contro il movimento. Ma, assieme e più in là, la riflessione da me sollecitata è anche quella della legittimità che all’interno anche dell’attuale movimento (o, meglio, particolarmente della sua parte italiana, perché non va dimenticato che questo è il primo movimento globale) continuano ad avere culture politiche violente, logiche e pratiche di intolleranza.

In particolare citavi un episodio, la cui gravità ti ha molto colpito, e che consideri emblematico. Puoi raccontare?

A conforto di questa mia valutazione e lettura, nell’intervista citavo appunto un fatto che nel dibattito che è seguito è stato, forse non per caso, ignorato. Invece secondo me era centrale.

Certo, è un singolo avvenimento, o perlomeno è l’unico di cui sono stato testimone diretto, ma resta un dato significativo. Su Repubblica ricordavo un episodio avvenuto nel corso di una manifestazione del movimento, molto composita e molto partecipata, svoltasi nella primavera scorsa a Milano. Ebbene, a un certo punto, dalle file del corteo, una persona è uscita e ha scritto sul muro di piazza del Duomo: "Galesi spara ancora!".

Sul punto, il commento di Bernocchi è stato quello di accusarmi di non essere intervenuto io per impedire quella scritta. Anche Casarini, col suo stile, ha minimizzato l’episodio dicendo che lui all’estensore della scritta avrebbe dato "due calci nel culo".

Di nuovo, insomma, si è guardato il dito. Il problema che volevo porre io, citando l’episodio, è diverso e ben più radicale. Non è questione di fermare quella singola mano o impedire quella scritta: non ho mai pensato o proposto che il movimento debba farsi poliziotto e controllore di se stesso. Questa è una logica snaturante per il movimento e avvilente per la politica, che purtroppo non mi sorprende provenga da Bernocchi e Casarini, o per meglio dire dalle aree di movimento da loro in qualche modo rappresentate. Anzi, è ulteriore conferma di quanto dicevo prima. Voglio dirlo: quella è una logica miope e violenta, che pensa di risolvere una contraddizione politica con la repressione fisica. Il problema vero e ancora insoluto è di fare, nella sinistra e nei movimenti, una profonda e trasparente battaglia politica, di affermare e praticare una nuova cultura nonviolenta, non di dare due calci a qualcuno o di organizzare maneschi servizi d’ordine.

Quell’episodio, secondo me, depone emblematicamente di un vero e proprio salto di qualità intervenuto in questi ultimi anni, laddove le manifestazioni di sostegno alla lotta armata non sono più mimetizzate, relegate alle scritte notturne o ai volantini abbandonati anonimamente, ma si ritiene di avere la legittimità e il consenso necessari per invitare a "sparare ancora" a viso aperto da dentro un corteo. Insomma, quell’episodio, e ogni altro analogo, equivale al famigerato gesto della P38 che i manifestanti facevano durante i cortei negli anni Settanta. La differenza è nei numeri. Ma è differenza solo quantitativa. Da un punto di vista politico, le assonanze dovrebbero preoccupare, o quanto meno fare discutere seriamente. Si è preferito, si sta preferendo, mettere la testa sotto la sabbia. E, così facendo, si espone anche questo movimento a seri rischi di degenerazione. Ma anche di inadeguatezza. Perché il problema non è solo quello della violenza: è anche quello di quali sono le pratiche, i luoghi, le forme e le culture politiche capaci di essere motore di liberazione e trasformazione sociale.

Certo, oltre ai numeri, sono diversi anche i contesti sociali e internazionali. Il rischio è sicuramente più limitato e circoscritto, ma non di meno può ancora avere sviluppi e crescendo drammatici. Non solo dal punto di vista dei costi umani, e come si è visto dalle indagini sull’uccisione di D’Antona e di Biagi la pratica dell’omicidio politico non abbisogna di grandi strutture o di un numero cospicuo di militanti. Il danno è anche costituito dal fatto che la politica e, ripeto, il movimento sono tenuti in qualche modo e misura in costante ostaggio e in mora dal terrorismo. Anche qui, basti guardare agli effetti di condizionamento dovuti alla miriade di piccoli attentati avvenuti in questi anni e, ancor di più, al periodico ed esteso allarme dovuto alle spedizioni di "pacchi-bomba".

Insomma: non ci si può tranquillizzare guardando ai piccoli numeri di quanti compiono attentati e propongono la lotta armata rispetto alla vastità del movimento, perché il terrorismo (e quello di oggi, a differenza degli anni Settanta, è propriamente definibile tale) è uno strumento comunque e in sé potente, in grado di condizionare la politica e di interdire il cambiamento, oltre che di costituire come sempre un comodo paravento dietro al quale avanzano politiche autoritarie e derive liberticide, business e deviazioni istituzionali. Nemmeno va sottovalutato quanto, e anche questo è dato di significativa differenza col Novecento, la maggiore autoreferenzialità della soggettività politica, la minore dipendenza da necessità di delega, di consenso sociale o di seguito di massa, vale per i partiti politici ma anche per il terrorismo.

Tanto meno ci si può tranquillizzare se la propaganda della lotta armata ottiene la compiacenza o sia pure l’indifferenza di pezzi non piccoli del movimento, com’è indiscutibilmente avvenuto nell’episodio milanese da me citato.

Le reazioni alla tua presa di posizione sono state particolarmente dure e virulente, te le aspettavi?

Una delle ragioni aggiuntive per cui ho deciso di fare quell’intervista a Repubblica è che poco tempo prima era uscito un editoriale sul Manifesto di Gabriele Polo - ora divenuto nuovo condirettore di quel quotidiano - che in qualche modo anticipava alcuni degli aspetti del dibattito poi da me lanciato con forza. In particolare, il Manifesto, affermando esservi a sinistra una continuità delle "doppie verità", quelle ufficiali e pubbliche e quelle interne e segrete, poneva una questione che è l’altra e complementare faccia della stessa medaglia di cui sto parlando: la venatura, se non vocazione, autoritaria che ha percorso l’esperienza dei movimenti comunisti del Novecento e la mitologia della palingenesi rivoluzionaria e della presa del potere, della violenza come levatrice della Storia.

Quella doppiezza politica non è però tramontata con il superamento del lungo dopoguerra italiano, con la fine dei movimenti degli anni Settanta, con la sconfitta operaia degli anni Ottanta, con il crollo del Muro di Berlino e il tramonto dell’eredità di Yalta, con la trasformazione dei vecchi partiti comunisti e l’esaurirsi della Prima Repubblica. È traghettata dalla cultura politica dei decenni scorsi a oggi, anche nei nuovi e attuali movimenti, assieme e grazie a una parte di inalterato ceto politico nel movimento e nel sindacalismo di base. Credo che, assieme a quello della violenza politica, quello della doppiezza, vale a dire del fine che giustifica i mezzi, sia un altro dei grandi nodi irrisolti, delle eredità negative del Novecento che ancora ci condizionano. E le reazioni alla mia intervista me l’hanno confermato sotto vari profili. Beninteso: la doppiezza non è stata prerogativa esclusiva della sinistra, quanto delle logiche di potere e di dominio che hanno caratterizzato il mondo diviso in blocchi e la guerra fredda. Ed anzi arriva da ben più lontano, così come la filosofia che subordina i mezzi alla bontà dei fini, che utilizza il male per produrre un bene superiore e pone la centralità della forza, nel paradigma politico della modernità è già sistematizzata nel Leviatano hobbesiano.

Però, e tornando al Manifesto, cos’è successo? Che a quell’editoriale è seguito il più totale silenzio, nonché, va detto, un rapido accantonamento della questione da parte dello stesso quotidiano, che non lo ha sostenuto con l’apertura di un vero dibattito. Da parte della sinistra e del movimento in tutte le sue componenti, vecchie e nuove, è prevalsa la strategia del far finta di nulla. Silenzio assoluto. Ecco: anche il conformismo di questo silenzio, questa non volontà di discutere, questo riflesso condizionato e antico di reticenza, mi ha spinto a fare quell’intervista. Che, essendo stata "sparata" in prima pagina da Repubblica, che la ha poi sostenuta per parecchi giorni con editoriali e altre interviste, non ha più consentito ai tanti don Abbondio della sinistra e del movimento di tacere.

A quel punto, chiusa la strada alla strategia del silenzio, sono subentrate alcune sue varianti. Quella, più volgare, della campagna di insulti e di aggressione. Quella, complementare ma meno rozza, della falsificazione del mio pensiero e delle mie parole. Ma anche quella della riproposizione del metodo delle doppie verità. Uno degli argomenti più utilizzati per evitare di discutere nel merito e per effettuare un processo alle mie intenzioni, infatti, è stato il "cui prodest", vale a dire il pericolo di strumentalizzazione da parte della destra e dunque l’inopportunità di un dibattito sui temi proposti ("infiltrazione" delle BR, questione violenza politica-conflitto-movimenti).

Un ragionamento che somiglia molto da vicino a quello, appunto a lungo tragicamente maggioritario nelle sinistre e nei partiti comunisti, specie italiani, secondo il quale non andavano denunciati i gulag e lo sterminio politico e fisico dei dissidenti nell’Unione sovietica e nei Paesi del socialismo reale, perché ciò avrebbe giovato al nemico di classe, al capitalismo e all’imperialismo. Quand’invece il coraggio della denuncia avrebbe accelerato la messa in discussione di regimi autoritari e repressivi e magari contribuito a salvare la vita e l’onore di milioni di persone, molte delle quali autenticamente comuniste.

Allo stesso modo, il silenzio o la reticenza (o, mutatis mutandi, la scomunica e l’anatema) nell’affrontare i temi da me proposti credo vada a tutto detrimento del movimento stesso, invece interessato a una posizione limpida e pubblica. Magari e proprio anche per liberarsi di queste ipoteche, di queste culture autoritarie che non gli appartengono ma che gli sono state giustapposte.

Forse anche per questo le reazioni alla mia intervista sono state così violente: perché non si è potuto non discuterne e quindi molti sono stati costretti a prendere parola, mentre avrebbero al solito preferito perseverare nella strategia del silenzio opportunistico e della doppiezza ipocrita. Molti di costoro, infatti, continuano a pensare che le BR siano compagni che sbagliano oppure, con cattiva coscienza, a suggerire che esse siano "sedicenti rosse". Esattamente come faceva il PCI 30 anni fa. Per ignoranza, demagogia o fors’anche perché, come poi si è storicamente acclarato, molti dei primi brigatisti proprio da qualche sezione del PCI e dalla mitologia della Resistenza tradita provenivano.

Che valutazioni si possono trarre dalle risposte che ci sono state?

In prima lettura, direi molto negative, nel senso che la maggior parte si è limitata all’insulto. Peraltro con modalità e contenuti sorprendenti. Mi riferisco al fatto che l’obiezione, la critica principale, che mi hanno lanciato sui giornali e nei comunicati i leader più rappresentativi dei Cobas e dei disobbedienti (ma anche il segretario dei Verdi, Pecoraro Scanio), aveva come argomento quello che chi, come me, ha avuto responsabilità nel conflitto sanguinoso degli anni Settanta non ha titolo o credibilità per dibattere pubblicamente e deve solo stare zitto.

Finora questo tipo di attacco mi era venuto solo dalla destra più estrema e da chi coltiva una inesauribile logica rancorosa. Non a caso, anche più di recente, lo stesso argomento, o meglio lo stesso livore, è stato utilizzato da taluni esponenti politici contro Adriano Sofri per contrastarne la grazia. Che quel tipo di sentimento e lettura potesse albergare in esponenti significativi di questo movimento un po’ mi ha stupito, un po’ mi ha addolorato, ma al contempo mi ha preoccupato ulteriormente. Perché vuol dire che anche le culture di questo movimento che in superficie appaiono nuove, almeno in parte, dentro la pancia, invece perpetuano ancora questa logica che non esito a definire autoritaria, forcaiola, stalinista: una logica di demonizzazione, di annullamento dell’avversario. Voler costringere al silenzio l’avversario percepito come nemico, infatti, non è concettualmente molto diverso dal volerlo annientare.

Fortunatamente, oltre a queste reazioni ci sono però state alcune prese di posizione interessanti che, pur non condividendo parte delle cose che ho detto, sono entrate nel merito. Penso ad esempio a Bertinotti che, a distanza di mesi da quel dibattito, ancora di recente sul Corriere della Sera ha scritto un intervento sul comunismo e la nonviolenza, che a mio parere contiene alcuni spunti di sicuro interesse e soprattutto propone una logica diversa su questi temi, una capacità di affrontarli senza timidezza e pubblicamente. Egualmente di forte significatività è stato il dibattito comparso sulle pagine dell’Unità che ha visto dialogare Bertinotti e Sofri. Laddove il primo, oltre ad affrontare senza reticenze anche aspetti storici drammatici, quali le stragi delle foibe, ammirevolmente cerca di proporre una nuova e diversa coniugazione tra comunismo, libertà e nonviolenza. Mentre il secondo, in un successivo intervento sul Corriere della Sera, con la consueta e acuta sincerità, ha rotto un altro tabù, ancora molto caro alla sinistra: quello che tra le parole e le culture violente e la loro messa in pratica, tra l’incitamento all’odio per il nemico e la sua concreta aggressione, non vi siano nessi di continuità. Certo, scrivere "Galesi spara ancora" (o, ieri, gridare nei cortei che ammazzare fascisti o carabinieri non è reato) non equivale a sparare per davvero, non riveste responsabilità per il codice penale. Ed è bene che sia così. Ma pure comporta una indubbia gravità sotto il profilo politico e culturale.

Tornando agli interventi di Bertinotti e Sofri (ma anche di Revelli, Manconi, Susanna Ronconi, Gabriele Polo e Andrea Colombo sul Manifesto e tanti altri), queste sensibilità ci dicono di una parte di sinistra che sa fare coraggiosamente i conti con se stessa, con i propri riferimenti e con il passato e che dunque ha ancora una valenza innovativa e può allora essere motore di speranza e cambiamento. Purtroppo, più che di parte della sinistra è più corretto parlare di suoi singoli esponenti. Perché, ad esempio, anche in Rifondazione non è certo marginale, su queste tematiche, un sentimento incline all’intolleranza e alla doppiezza. E, al riguardo, basti vedere gli interventi e le cronache pubblicate da Liberazione dopo la mia intervista.

In sostanza, le reazioni apparse sulle pagine dei giornali sono state in molta parte negative, perché non hanno accettato il confronto, si sono limitate agli insulti. Però, ripeto, con eccezioni autorevoli, significative e da apprezzare.

Sotto la superficie, credo dunque che un residuo positivo sia rimasto, che questo dibattito sia servito. Ne ho avuta la riprova anche nei tanti messaggi che mi sono arrivati, non solo di solidarietà personale rispetto alla campagna di aggressione, ma di condivisione, di interlocuzione positiva e anche di consonanza con le valutazioni che ho proposto. Questo, risultando poco dalle pagine dei giornali, spesso interessati più alla contrapposizione e allo schieramento che non all’approfondimento, non viene percepito sufficientemente.

Penso di aver sollevato un tema che in molti ambiti si sente comunque come reale e importante, pur senza aver la forza, e talvolta il coraggio, di affrontarlo pubblicamente. Tanto è vero che, dopo essere covato due mesi sotto la cenere, è ora riemerso, grazie agli interventi di Bertinotti, spingendo molti altri a prendere parola (si vedano i molti interventi su Liberazione e il Manifesto tra dicembre e gennaio) e inziandosi a tracciare in modo visibile forti differenziazioni di pensiero, anche all’interno di Rifondazione, nonché delle anime del movimento. Insomma, anche questo "secondo tempo" del dibattito mi sembra confermi pienamente quanto ho detto, vale a dire che in pezzi non indifferenti della sinistra e del movimento la violenza politica rimane un’opzione considerata legittima e possibile in determinate circostanze. Se si afferma a livello teorico ciò, se la discriminante è solo tattica e contingente, ci si assume inevitabilmente il fatto che alcuni possano ritenere presenti e attuali quelle circostanze. Insomma, mi pare siamo di nuovo in presenza di una irresponsabilità delle proprie parole e del proprio pensiero.

È un tema che investe forse più la cultura che le dinamiche politiche, però riguarda anche il modo in cui si concepisce la politica e il rapporto tra questa e i movimenti.

In ogni modo, questo dibattito è reso più difficile dal fatto che c’è un cronico deficit di riflessione al riguardo. E non penso qui solo all’attuale movimento, che in parte è vaccinato ma in parte no dai rischi della concezione violenta della lotta politica. Penso soprattutto alla sinistra istituzionale, ai suoi partiti e sindacati, che scontano un ritardo culturale; come pure a tutta quella galassia di sinistra sociale che comunque esisteva prima dell’attuale movimento, e che non ha ancora fatto veramente i conti con le categorie culturali e politiche che fanno parte del corredo ideologico della sinistra del Novecento.

In un certo senso, mentre chi come te in quegli anni ha intrapreso un percorso che ha avuto anche esiti drammatici, trovandosi così costretto a fare i conti con la propria storia e cultura, la sinistra in generale si è sentita dispensata dall’avviare questo processo di riflessione…

È così. All’inizio degli anni ’80, quando nelle aree omogenee, da dentro le carceri speciali, noi abbiamo iniziato un percorso di revisione critica della nostra storia, in particolare della lotta armata, ci siamo immediatamente trovati di fronte, ad esempio, al nodo della contraddizione insanabile tra mezzi impiegati e fini perseguiti, e abbiamo messo in crisi le nostre scelte. La sinistra questo percorso non l’ha fatto. Tanto che ancora nel dibattito di questi giorni questo aspetto viene affrontato da alcuni esponenti politici come fosse nuovo e inedito. Certo, 30 anni fa, le nostre responsabilità sono state drammaticamente diverse e infinitamente più pesanti di quelle del resto del movimento e della sinistra. Tuttavia, noi siamo stati coloro che hanno portato alle estreme conseguenze una cultura politica che era condivisa da milioni di persone e militanti della sinistra: quella della presa violenta del potere. Siamo stati coloro che hanno tradotto in pratica gli slogan che decine di migliaia di persone gridavano nelle piazze. La lotta armata degli anni Settanta è stata questo: un percorso di allucinata coerenza, un avvitamento militare dello scontro sociale, non è stata un impazzimento di alcune migliaia di persone.

Certo, noi siamo finiti in carcere. Il resto della sinistra ovviamente non si è trovata nella doverosa necessità e nella condizione di misurarsi in maniera così lacerante e radicale con la propria sconfitta. Che però è stata egualmente profonda ed epocale. E non solo sul piano strettamente politico: basti pensare alla sconfitta operaia alla FIAT nell’autunno 1980. Lì si è visto che non l’estremismo armato era sconfitto, ma assieme e più in radice, la plausibilità dell’ipotesi della rivoluzione e dell’attualità del comunismo, assieme alla composizione sociale e di classe propria del fordismo.

Insomma, voglio dire che noi in qualche modo eravamo già allora una cartina di tornasole della necessità di rivisitare in radice alcuni fondamenti ideologici e determinate logiche politiche. La sinistra nel suo complesso non lo ha fatto. Ha cambiato nome e strategie, in alcuni casi ha abbandonato - o addirittura negato di aver mai avuto - ogni riferimento nominalistico e ideale al comunismo, ma senza sostanziare tutto ciò con un dibattito politico critico e una profonda revisione culturale. Tant’è che oggi spesso non si sono più richiami a quel corpus ideologico e a quelle culture politiche, ma nei comportamenti politici permangono le doppiezze di cui si è detto, le intolleranze proprie dello stalinismo e una visione autoritaria del rapporto con la società. .

Negli anni Ottanta la sinistra si è accontentata che tutto si chiudesse con la nostra sconfitta, con la nostra carcerazione, e si è ritenuta così esentata dal dover fare dei conti pubblici e politici con la storia e le culture della presa violenta del potere. E adesso dice: "Beh, questa è roba del Novecento, non ci riguarda e non ci interessa più". Eh, no, signori miei, come non ci interessa più? Invece ci interessa ancora, perché in qualche modo quella cultura è stata traghettata anche in questo nuovo secolo, in questo nuovo millennio e anche in questo nuovo movimento. Questo movimento non è solo nuovo. Questo movimento è anche una somma di diversità, che certo è una ricchezza, però in questa diversità c’è anche molto di quel vecchio, di quella cultura irrisolta che appunto era la logica della presa violenta del potere.

Il mio invito era allora innanzitutto di avviare, pur ex post, questa elaborazione e revisione culturale. Sia perché non è mai troppo tardi, sia perché è un fare i conti con se stessi, con la propria identità e cultura di riferimento, che non può essere rimandato ulteriormente; è tempo che quel passato venga capito fino in fondo e gestito politicamente e pubblicamente. Naturalmente, i conti col passato riguardano ancora di più chi ha governato questo paese nella Prima Repubblica: non vanno dimenticate le enormi responsabilità di pezzi rilevanti dello Stato, delle istituzioni, dei partiti nella strategia della tensione, nelle trame autoritarie, nello stragismo. Responsabilità impunite e addirittura cancellate dalla memoria storica di questo Paese. Anche perciò parlare di tutto ciò non è discorso solo rivolto al passato, a una materia polverosa e ormai inerte. Perché quelle responsabilità impunite, così come quelle logiche politiche, incidono ancora sull’oggi. Perché alcuni "scheletri negli armadi", alcune deviazioni istituzionali del passato, alcune continuità ai vertici politici e istituzionali - in assenza di un percorso di riconciliazione e di superamento trasparente di quegli anni di sangue, di condizionamenti internazionali e di trame - inevitabilmente condizionano il presente.

Se dunque è assai vero che le responsabilità sul passato e la necessità di separarsene per davvero non riguardano solo la sinistra, dal mio punto di vista è necessario che ognuno, per la propria parte, abbia il coraggio e la lungimiranza di farlo, indipendentemente dal fatto che lo faccia anche o prima l’avversario politico. Diversamente, diventa un po’ come il discorso sulla violenza. La propria è sempre giustificata da quella dell’avversario.

Secondo Casarini (ma anche Rossanda), il vero problema non sono le BR o il terrorismo ma è la violenza del sistema. Che è ovvia e purtroppo vasta. Ma bisogna evitare ogni suggestione sulla possibile legittimità della violenza difensiva (guerra alla guerra), perché è esattamente quello il possibile punto di deragliamento dei movimenti. È quella la logica per cui non si vede soluzione in Medio Oriente o in tanti altri luoghi di insanabile conflitto e di inesauribile catena di rappresaglie. Se non si rompe, anche unilateralmente, in un punto quella catena di odio non vi potrà mai essere pace e giustizia.

Occorre insomma un deciso scarto: la radicalità dei contenuti può e deve sposarsi con la radicalità dell’azione nonviolenta. È il potere in quanto tale e la sua quintessenza violenta che va messo in discussione. Per questo oggi sostengo che la vera radicalità è la nonviolenza, perché è l’unica opzione che mette in crisi la logica della politica come potere e come primato della forza. Logica che - ribadisco - invece è ancora presente, sia nella sinistra che nel movimento.

In quegli anni, nella gamma delle opzioni politiche possibili, di cui la lotta armata è stata la scelta estrema, c’era una sorta di fossato, rappresentato, per esempio, da Lotta Continua, ma non solo. Ovvero, pur essendo da lì venuti alcuni di coloro che poi fecero la scelta armata, però dal momento in cui uno usciva c’era una rottura, si rompevano anche amicizie, c’era una cesura. Oggi la gamma si è addirittura allargata e allora una delle domande che si pongono è: dov’è oggi il fossato?

La domanda è puntuale. Nel senso che secondo me, fatte le debite proporzioni, siamo esattamente nella fase antecedente al fossato che obiettivamente Lc e altri gruppi pur solo a un certo punto degli anni ’70 scavarono.

Io provengo da Lc, vi ho militato per molti anni, e quando ho voluto fare la lotta armata sono dovuto uscirne. Ma la cultura e la pratica della violenza politica ha avuto una lunga e concreta incubazione dentro Lc, così come dentro tutti gli altri gruppi extraparlamentari dell’epoca. Come parecchi brigatisti del nucleo storico provenivano dal PCI e dalla FGCI e dal sindacato tradizionale, la quasi totalità dei militanti di PL e dei gruppi armati dell’autonomia, e parlo dunque di migliaia di persone, provenivano da Lotta continua e Potere operaio e dal sindacalismo di base e, in seguito, dal movimento del Settantasette.

Nei primi anni Settanta, la nostra è stata sì una scelta di rottura ma anche di continuità. Tutto il nostro percorso e quello complessivo della sinistra extraparlamentare e radicale di quegli anni, è leggibile e comprensibile solo come sequenza di continuità e di rotture. E le rotture non sono mai state, tranne casi veramente sporadici e singoli (penso ad esempio a Marco Boato, che già allora avversava la violenza) sull’accettazione o meno della legittimità dell’uso e dell’organizzazione della violenza politica, ma semmai e solo sul grado e sulle forme di quella tatticamente esercitabile in quel momento.

Solo quando questo si è tradotto in scelte effettive di organizzazione della lotta armata, anche dentro Lc è scattata una sorta di maggiore consapevolezza. È stato allora che, pian piano, si è delineato quel fossato. Ma, intanto, molti di noi, centinaia di militanti lo avevano già saltato.

Allora, a me pare che oggi siamo nella fase in cui dentro la sinistra, dentro il movimento, nessuno ancora ha scavato, reso visibile e invalicabile quel fossato perché nessuno pensa sia utile, doveroso o conveniente farlo. Le reazioni alla mia intervista (ma anche e di più agli interventi di Bertinotti di queste ultime settimane) di questo testimoniano: che troppo pochi considerano questo un problema, una necessità. C’è stata una gara (sorprendentemente anche da parte di magistrati e investigatori, ministri e esponenti politici, commentatori e giornalisti) a minimizzare il pericolo del terrorismo e della sua persistenza. Basta rileggersi i giornali dei primi di novembre. Ora, a distanza di qualche mese e con qualche indubbia faccia tosta, nel dibattito politico si cominciano a dare per acquisiti alcuni dei dati da me posti: vale a dire che c’è continuità tra vecchie e nuove BR; che gli arresti effettuati per D’Antona e Biagi non esaurivano il fenomeno; che c’è anzi una nuova determinazione organizzativa delle BR nel Nord-est; che oltre alle BR c’è una ben più estesa rete di militanti e simpatizzanti della lotta armata, e si vedano l’ultima ondata di pacchi bomba e il documento della Federazione anarchica informale, che testimonia di un’estensione e una radicalizzazione nonché di un vero e proprio salto di qualità per quel tipo di ambiti, laddove per la prima volta si delinea e teorizza esplicitamente la prospettiva della lotta armata.

Tutto ciò rende urgente la rideterminazione di un fossato culturale e politico, ma vorrei dire anche etico. Che risulterà tanto più efficace e credibile quanto più sarà la sinistra a prendere l’iniziativa di costituirlo.

Una seconda questione, più culturale-politica, a cui hai già fatto cenno, riguarda più prettamente l’antagonismo, cioè queste dinamiche della presa di potere, della zona rossa da invadere sembrano essere rimaste come cornice culturale…

Le due questioni sono legate, soprattutto se vogliamo individuare e preservare la novità di questo movimento. Ebbene, le ritualità delle lotte di piazza, delle manifestazioni di questi anni sfortunatamente rafforzano una preoccupazione da questo punto di vista: non si vede un reale scarto nel modo in cui oggi si sta dentro il movimento e le lotte. Quello a cui assistiamo è una frequente riproposizione della contrapposizione amico-nemico, un altro di quei paradigmi che tanta parte ha avuto nella cultura della sinistra del Novecento e io credo anche nelle nostre scelte, nelle nostre radicalizzazioni e nelle nostre rotture.

Anche le reazioni alla mia intervista, secondo me, confermano questo tipo di percezione. C’è ancora quella intolleranza, c’è di nuovo questa categoria, per cui la differenza o il contrasto viene immediatamente tradotto e percepito come tradimento. Ancora oggi, un po’ come accadeva ai vecchi tempi, chi è più disponibile allo scontro viene equivocato come quello più a sinistra, come il più radicale.

Se questo è vero, vuol dire che c’è ancora molta strada da fare. E non mi riferisco solo ai conti col passato e non lo dico nel senso che allora la sinistra si deve giustificare di aver creduto nel comunismo. No, bisogna fare i conti con una cultura politica che demonizza l’avversario, che alimenta odio, che teorizza una estensione all’infinito del conflitto, senza che esso sappia e voglia intrecciarsi col piano della mediazione.

Allora, la vera radicalità sta sì in una strategia di disobbedienza civile e sociale, ma quella vera, quella di Danilo Dolci, di Aldo Capitini, non quella messa in scena in questi anni, spesso culturalmente succube di una visione violenta. C’è, insomma, in questo movimento anche un problema di spessore culturale, politico e umano delle sue figure di riferimento.

Questo mi fa ricordare con rimpianto alcune figure del passato. Penso a quanto sarebbe preziosa oggi, ad esempio, la cultura e l’esperienza politica di Alex Langer, "viaggiatore leggero" e costruttore di ponti tra diversità, che negli anni ’70 è stato sicuramente una figura positivamente anomala. Purtroppo, forse lo stesso esito della sua vita testimonia del pessimismo rispetto alla possibilità di cambiare in profondità il modo di fare politica. Tentare di costruire ponti, ovvero di individuare sempre punti in comune, di mettersi in mezzo nei conflitti dovrebbe diventare una nuova metodologia di confronto politico che stia dentro anche a questo tempo e quindi a questo movimento. La logica dei ponti, della tolleranza e del rispetto reciproco, da un certo punto di vista possono essere letti come prepolitici, ma invece a mio parere sono anche l’oggetto e non solo il mezzo per costruire una realtà diversa. Dunque sono politica piena e alta.

Tornando alla domanda, un’ulteriore molla che mi ha spinto a fare quell’intervista è stata anche la manifestazione di Roma del 4 ottobre 2003, la prima dopo lungo tempo in cui il movimento ha voluto scendere in piazza separato dal sindacato e dalle altre forze di sinistra, in cui appunto si è visto bene in che cosa si traducessero poi queste pratiche di disobbedienza: nel fronteggiamento militare della piazza, nel tentativo di strappare un metro di terreno alla polizia schierata, nella violazione delle zone rosse, nella ricerca dello scontro fisico. Questa è una logica simbolica e forse in quanto tale sdrammatizzante, che però allude comunque a quell’idea di potere, del palazzo da conquistare, di una lingua e ambizione comunque in comune con l’avversario.

Di nuovo: l’antagonismo e la radicalità io credo stiano invece nel rivendicare e praticare uno scarto deciso da queste logiche. Per questo torno a ribadire la necessità di un confronto, di una discussione seria e franca per individuare e smantellare i tanti tic, tabù, intolleranze e doppiezze che ancora abitano a sinistra.

Anche perché qui rischia che si riproponga la dinamica del vecchio che cerca di tirare per la coda il nuovo. Pure in questo movimento ci sono dei pezzi di cultura vecchia, di pratica politica vecchia…

Che però sono anche quelli più capaci di conquistare visibilità e quindi rappresentatività…

Ma questo perché succede? Perché sono più riconoscibili dal sistema dei media e dalla politica istituzionale, coi quali c’è una sorta di gioco di specchi, di riconoscimento reciproco, di linguaggio comune basato su una analoga autoreferenzialità.

Poco tempo fa ero a Salerno, per l’anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ero stato invitato a presentare il Rapporto sui diritti globali nel 2003, un volume che ho curato per la CGIL e il Gruppo Abele; ebbene, anche lì ho ritrovato gruppi, singole persone, reti solidali che gestiscono le botteghe equo-solidali, che fanno attività di educazione alla pace, all’ambiente. Insomma, c’è ormai una trama molto poco visibile ma molto diffusa di realtà che operano sul territorio e promuovono culture di partecipazione e nonviolenza. Una trama che invece è un po’ il cuore vero e per davvero nuovo di questo movimento, che tra l’altro è anche trasversale generazionalmente: anche questa è una ricchezza e una novità che troppo poco è stata evidenziata. Ma tutte queste esperienze ancora non hanno trovato la capacità di rappresentarsi come soggetto che mette in sinergia il globale e il locale, per cui gli viene negata anche una possibile efficacia politica.

Io trovo desolante che tutte queste pratiche e reti restino invisibili (e questo è responsabilità dei media ma anche della sottovalutazione di queste stesse reti del problema della comunicazione) perché, al presentarsi delle varie scadenze, restano sempre schiacciate da figure come Casarini o come Bernocchi, uno che ha inventato il mestiere di "portavoce a vita". Non lo dico in senso offensivo, ma perché trovo che anche questo aspetto, le logiche verticali, la persistenza di nomenklature, sia un fatto inquietante, capace di soffocare il nuovo di questo movimento.

Questo a tuo avviso segnala qualcosa che non va anche sul piano più generale dell’associazionismo, del volontariato, non solo del movimento…

Forse vale la pena interrogarsi su questi rischi, anche nell’ambito dell’associazionismo, del volontariato, del Terzo settore, in cui anch’io opero. C’è da chiedersi se non sia giunto il momento di dotarsi di maggiori regole, di una maggiore e reale democrazia. Perché nello stesso associazionismo purtroppo è abbastanza usuale che uno faccia il presidente per 20 anni di fila. Persino il presidente della Repubblica ha dei limiti, può fare solo due mandati; anche negli ambiti tradizionali della politica e delle istituzioni o nel sindacato ci sono meccanismi di ricambio, controlli e garanzie. Possibile che ambiti che in qualche modo hanno come cultura e sensibilità di riferimento, come propria ragione sociale, quella del cambiamento, di una costitutiva attenzione ai giovani, alle parti sociali più deboli non avvertano nel loro quotidiano operare la contraddizione con la verticalità delle loro rappresentanze, con la democrazia e la partecipazione ridotte spesso a riti formali nelle loro assemblee?

Dentro le associazioni, il volontariato, i movimenti bisognerebbe allora iniziare a praticare maggiormente un po’ di regole democratiche e di salutare ricambio. Anche e appunto per non trovarci con persone che per 30 anni svolgono lo stesso ruolo di portavoce o di presidente. Perché questo obiettivamente, pure nel caso di degnissime persone e delle migliori intenzioni, com’è quasi sempre, soffoca il nuovo, sacrifica il cambiamento, avvilisce le ragioni originarie, inaridisce le spinte propulsive.

Bisognerebbe valorizzare e sperimentare altre pratiche, proprio a partire dal concetto di rete e nodi, peraltro più affini all’idea stessa di movimento. La rete Lilliput mi sembra stia mettendo in atto un’esemplificazione positiva di queste diverse logiche. Va costruita e sedimentata questa possibilità orizzontale, per evitare di ricostruire e perpetuare sempre il modello piramidale e verticale del potere, con qualcuno che all’inizio parla al posto di altri e poi va a finire che decide anche al posto di altri. E, guarda caso, nella sfera pubblica, nella politica e anche in questo nuovo movimento, di portavoce donna ancora non se ne sono mai visti.

Anche qui bisogna superare la logica delle doppie verità, per cui si continua ad accettare come naturale che ci sia uno scollamento tra pubblico e privato, tra personale e politico, tra parole e comportamenti. La vera radicalità va cercata tenendo assieme queste cose. O almeno provandoci.

Qui però parliamo di una rivoluzione copernicana, della faticosa costruzione di una nuova cultura e una nuova politica, di un diverso sistema delle relazioni che, beninteso, chiama in causa e mette in discussione i limiti di ciascuno e le contraddizioni di tutti, le mie comprese.


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