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Immigrazione dall'Europa dell'Est
28.09.2003

Unione Europea allargata e immigrazione dall'Europa dell'Est
di Piero Lenzi.
Luxembourg, 18.09.03 - Con la firma al Consiglio di Atene di Aprile 2003 del Trattato di adesione all’Unione Europea da parte di Cipro, Malta, Slovenia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Ungheria, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, si è compiuto un passo importante nel processo di allargamento. In questo mese di settembre sono in corso gli ultimi referendum per l’approvazione del Trattato in alcuni di questi paesi. La Commissione Europea farà prossimamente il consueto punto della situazione autunnale sui processi di riforma in atto nei dieci paesi già ammessi e negli altri per i quali le negoziazioni sono ancora in corso(1).
In questi anni di negoziati di preparazione all'ingresso, è stata oggetto di forte attenzione la disparità nel livello di reddito pro-capite, all’interno dell’Europa allargata, fra paesi di nuova ammissione e paesi già membri.

Secondo le stime della Commissione relative al 2001, il confronto fra reddito pro-capite dei paesi di nuova ammissione e la media dei 15 paesi membri attuali produce risultati che vanno dall’80% per Cipro al 33% per la Lettonia(2).
Potrebbero derivarne flussi migratori importanti da Est a Ovest, con un conseguente effetto sulle politiche sociali e sulle dinamiche salariali nei paesi membri attuali, in una fase certo non facile per il mercato del lavoro.
L'Unione Europea, all'epoca del Consiglio di Copenaghen del 1993, quando per la prima volta si ufficializzó la disponibilità a considerare l’adesione dei paesi dell' Europa dell' Est, non poneva, né ha mai posto successivamente, condizioni specifiche per l'ammissione riguardanti il reddito pro-capite e, più in generale, il livello di sviluppo economico(3).

La situazione del mercato del lavoro nei paesi di nuova ammissione
Le cifre relative al mercato del lavoro inducono comunque a qualche riflessione.
Secondo stime di Eurostat, nel 2000 i costi medi orari della manodopera variavano nell'Unione Europea, nei paesi attualmente membri, dagli 8€ del Portogallo, i 10.4 della Grecia e i 14.2 della Spagna (i paesi con il livello più basso), fino ai 26.5€ della Germania, i 27.1 della Danimarca e i 28.6 della Svezia (i paesi con il livello più elevato).
Invece fra i 10 paesi ammessi dal 1° maggio 2004, i costi medi orari oscillavano nello stesso periodo fra i 2.4 € della Lettonia e i 2.7 della Lituania fino ad arrivare ai 9€ della Slovenia e ai 10.7 di Cipro (i due paesi che hanno un livello di sviluppo più in linea con i 15 membri attuali). Il costo medio orario complessivo era nel periodo considerato di 4.2 € l'ora, pari a circa 1/5 della media dei paesi attualmente membri.
Questo divario fra costi medi della manodopera dovrebbe incentivare lo spostamento di forza lavoro verso ovest e, per contro, lo spostamento di capitali verso est.
Anche la situazione dal lato occupazionale è mediamente poco favorevole nei paesi di nuova ammissione. Sempre secondo i dati di Eurostat relativi al 2002, a fronte di un tasso medio di disoccupazione del 7.5% nei 15 paesi membri attuali, la media dei 10 paesi di recente ammissione era del 15.1%, con picchi del 20% in Polonia e del 19.4% in Repubblica Slovacca.

Stime dei potenziali flussi migratori e delle loro conseguenze
Nel 2001 i lavoratori dei paesi dell'Europa centrale e orientale impiegati nei 15 paesi attualmente membri erano circa 300,000, pari ad un modesto 0.2% della forza lavoro e al 6% del totale dei lavoratori stranieri presenti nella UE (5.3 ml.). Le cifre includono, oltre ai 10 paesi che entreranno a far parte dell'EU dal 2004, anche Romania e Bulgaria. Il totale degli immigrati da questi paesi (comprendendo, oltre ai lavoratori, le loro famiglie) ammontava a 830,000 persone, pari allo 0.2% della popolazione totale dei 15 membri attuali. La proporzione era ovviamente più alta nei due paesi fin qui maggiormente interessati dal flusso migratorio, cioè Germania (0.4% della forza lavoro) e Austria (1.2%). Questi due paesi da soli hanno assorbito il 70% della migrazione fin qui verificatasi.
Le varie analisi effettuate sulla migrazione futura da Est a Ovest, una volta che avrà avuto luogo l'ingresso nella UE, hanno prodotto conclusioni sostanzialmente concordi(4).
A lungo termine l'immigrazione totale dai paesi dell'Europa centrale e orientale dovrebbe mantenersi al di sotto dell' 1% del totale della popolazione dei 15 paesi membri attuali: dalle 830,000 persone attuali si dovrebbe passare, entro 30 anni, a 3.9 milioni, pari all'1.1% della popolazione complessiva.
Considerando insieme sia i paesi ammessi dal 2004 sia Bulgaria e Romania (che dovrebbero invece entrare a partire dal 2007), il flusso in ingresso viene stimato per il primo anno in circa 120,000 lavoratori (330,000 persone in totale, incluse le famiglie al seguito), con una graduale riduzione alla metà dopo dieci anni.
Si tratta di un flusso tutto sommato contenuto. Da tener presente che negli anni recenti l'immigrazione ufficiale nella UE è stata di 800,000 persone l'anno, mentre l'afflusso annuo di persone in cerca di asilo è stato di 300,000.

Contenuto dovrebbe essere anche l'effetto di questa immigrazione sui livelli salariali e sull'occupazione nei 15 paesi membri attuali. Gli studi effettuati e l'esperienza passata mostrano che, mediamente, gli immigrati costituiscono un complemento del lavoro dei residenti, più che una sua sostituzione.

Per contro, da queste analisi emerge concorde la previsione che il flusso migratorio resterà concentrato in Austria e Germania, con proporzioni analoghe a quanto avvenuto fin qui (circa il 10% in Austria e 2/3 in Germania).
Questa immigrazione avrebbe sicuramente effetti utili per controbilanciare la riduzione in atto del livello della popolazione attiva. L'ONU stima che nei prossimi 50 anni sarebbe necessaria per l'Europa un'immigrazione di 1.4 ml. di persone l'anno per mantenere stabile il numero di persone in età lavorativa.

Per la Germania il declino della popolazione in età lavorativa dovrebbe essere più rapido che nel resto d'Europa; per arrestarlo occorrerebbe nei prossimi anni un flusso annuale di almeno 500,000 persone, pari a oltre il doppio di quello che le analisi sopra citate stimano in arrivo dai paesi del Centro e Est Europa.
Tuttavia l'Unione Europea ha mostrato, nella fase di negoziazione con i paesi candidati e di preparazione del Trattato di adesione, notevole prudenza su questo tema, considerata l'attuale situazione economica della Germania e i recenti sviluppi politici in Austria (comuni anche ad altri paesi europei), che hanno visto la crescita di movimenti di destra con forte carica xenofoba.

Accordi transitori per regolare l'accesso di forza lavoro
Il principio della libertà di movimento dei lavoratori è sancito negli articoli 39-42 del Trattato CEE e di fatto è stato pienamente realizzato nell'attuale Unione da oltre 30 anni. Chiunque, ad esempio, puó spostarsi dall'Italia per accettare un'offerta di lavoro in Germania, alle medesime condizioni di un lavoratore tedesco con qualifiche analoghe, senza alcuna discriminazione fondata sulla nazionalità, e senza necessità di ottenere un permesso di lavoro dalle autorità locali.

L'accesso di forza lavoro dai paesi candidati dell'Europa centrale e orientale ai 15 paesi attualmente membri è stato fin qui disciplinato a livello nazionale; dappertutto vige la necessità del permesso di lavoro, spesso con quote massime di lavoratori ammessi negoziate in maniera differenziata con i singoli paesi candidati.
Il trattato di adesione che entrerà in vigore dal 1° maggio 2004 prevede accordi transitori per dare la possibilità agli attuali Stati membri di mantenere restrizioni al libero accesso dei lavoratori provenienti dai paesi dell'Europa centrale e orientale (non a quelli provenienti da Malta e Cipro), derogando quindi al principio della libera mobilità della manodopera, fino ad un massimo di 7 anni dopo la data di ingresso nell'UE. Analoghi accordi sono da prevedersi nel caso di ingresso di Romania e Bulgaria nel 2007.

In sostanza i paesi attualmente membri potranno conservare per i primi 2 anni le misure nazionali attualmente in vigore in ciascuno di essi rispetto alla forza lavoro in arrivo da Est , mantenendo quindi la necessità del permesso di lavoro.

Al termine dei primi 2 anni vi sarà una verifica della situazione da parte della Commissione; ciascun Stato attualmente membro potrà comunque decidere se passare ad applicare agli Stati di nuova ammissione l'acquis comunitario della libera mobilità della manodopera, oppure se mantenere per altri 3 anni in vigore l'attuale regime nazionale, con divieto comunque di renderlo più restrittivo(5), salvaguardando i diritti dei lavoratori già residenti, e garantendo la piena libertà di lavoro per i membri delle loro famiglie.

Al termine di questo periodo di 3 anni, tutti i 15 paesi attualmente membri saranno invitati a aprire completamente il loro mercato del lavoro. Solo quei paesi che potranno dimostrare il rischio di seri shock interni potranno essere autorizzati ad operare per altri 2 anni col sistema dei permessi.
Il periodo transitorio cesserà in ogni caso dopo 7 anni.
Si noti bene: si tratta di una possibilità che viene data agli stati membri attuali, non di un obbligo ; la Gran Bretagna, ad esempio, ha annunciato che non ne farà uso e aprirà fin dall'inizio il proprio mercato del lavoro ai lavoratori provenienti dai nuovi paesi membri.
Analoghe misure transitorie vennero utilizzate nel caso dell'ingresso della Grecia, nel 1981, e di Spagna e Portogallo nel 1986(6).

Pro e contro
Ci si è chiesti(7) in che misura questa deroga di 7 anni al principio della libera circolazione del fattore lavoro nella UE allargata sia realmente necessaria per proteggere da shock indesiderati i mercati interni del lavoro, considerandone, per contro, la delicatezza dal lato politico e alcuni effetti negativi dal lato economico.
Dal lato politico si è rilevato che, dopo gli sforzi fatti dalla UE e i costi che saranno sostenuti per l'allargamento, si rischierebbe di creare un fenomeno di "immigrazione clandestina" di forza lavoro comunitaria, che dovrebbe essere in quel caso repressa dalle forze dell'ordine dei paesi di ingresso. Un paradosso per popolazioni che hanno considerato per decenni come un sogno proibito la fuga oltre cortina.
Dal lato economico si impedirebbe un flusso di manodopera mediamente ben qualificata che potrebbe essere molto utile da subito in alcuni distretti industriali degli attuali paesi membri (la Ruhr, il nord-est dell'Italia).

Occorre comunque dire che nei casi precedenti dell'adesione di Grecia, Portogallo e Spagna non si è assistito a movimenti significativi di popolazione, malgrado al momento dell'ingresso questi paesi presentassero livelli di PIL considerevolmente più bassi e livelli di disoccupazione più elevati rispetto ai paesi membri preesistenti.
Le richieste di permessi di lavoro da parte di lavoratori di questi tre paesi nel periodo transitorio furono estremamente ridotte e minimi i casi di rifiuto. In Spagna si è verificato un importante fenomeno di rientro di manodopera dopo l'ingresso nella CEE.

Tenendo conto di tutto ciò, nel caso di Portogallo e Spagna, il Consiglio Europeo, su raccomandazione della Commissione, ridusse il periodo transitorio a 6 anni rispetto ai 7 inizialmente previsti.
Il punto importante è che questi paesi, soprattutto la Spagna, sono stati molto rapidi nel prendere il treno della crescita; questa sarà anche la chiave di volta per l'integrazione dei paesi dell'Europa dell'Est.
Occorre poi considerare le barriere al movimento : strutturali, di linguaggio e di cultura, che renderanno, anche in prospettiva, il mercato del lavoro UE molto meno mobile, ad esempio, di quello USA.
Sondaggi recenti effettuati nei paesi candidati dell'Europa dell'Est mostrano che la popolazione è complessivamente più interessata alle prospettive di sviluppo interno che all'emigrazione a ovest.

Rilocalizzazione a est delle imprese
E' agevole invece ipotizzare un flusso ben più importante verso i paesi dell' Est dell'altro fattore di produzione, cioè del capitale, e, per conseguenza, una crescita dei salari medi indotta dall'aumento della domanda di lavoro. Questo è avvenuto negli ultimi 15 anni in Spagna, Portogallo e Grecia (malgrado le cifre sopra citate mostrino come il divario nei costi del lavoro rispetto agli altri paesi membri sia ancora lungi dall'essere colmato)(8).
Anche dal lato dell’imposizione i 10 paesi dell'Est di nuova ammissione presentano caratteristiche tali da renderli attraenti all'insediamento di attività produttive. Malgrado l'abbassamento dell'aliquota media di imposizione statale dell'impresa nei 15 paesi membri attuali, passata dal 32.4% del 1999 al 29.3% nel 2002 (con contemporaneo innalzamento della base imponibile), si constata che i 10 nuovi paesi membri adottano comunque attualmente aliquote più ridotte. La media è infatti del 25.5%.
Attualmente, il peso delle imprese di proprietà straniera nell'occupazione nel settore manifatturiero raggiunge in Ungheria il 46.5% (il tasso più alto in tutta l'OCSE, dopo l'Irlanda), il 18.6% in Polonia e il 16.2% nella Repubblica Ceca.

Nel 2000 quasi il 70% del flusso di investimenti diretti esteri (FDI) nei paesi dell'Europa centrale e orientale era di origine UE. Mentre il flusso globale di FDI si è dimezzato fra 2000 e 2001, questi paesi sono gli unici al mondo nei quali si è registrato nel medesimo periodo un aumento e restano per ora, anche nei sondaggi di opinione fra i manager dell’ industria, fra i più attraenti per futuri investimenti(9).
L'apertura di questi paesi darà alle imprese multinazionali la possibilità di localizzarvi una quota sempre più ampia della loro produzione, sia per servire il mercato locale che quello globale.
Lo sviluppo indotto dall'investimento di queste imprese renderà comunque il gioco non "a somma zero" per gli attuali 15 paesi membri, ma "a somma positiva", con guadagni per tutti.

Dall'inizio del 1990 i paesi dell'Europa centrale e orientale hanno sperimentato una moltiplicazione per 5 delle loro importazioni dall'UE e per 4 delle loro esportazioni verso la UE. La UE conta adesso in media per il 63% delle loro importazioni e per il 66% delle loro esportazioni. Il surplus commerciale della UE attuale nei loro confronti è passato da 8.8 mdi € nel 1995 a 17.2 mdi € nel 2000.
Questi surplus hanno già creato posti di lavoro per i cittadini dell'UE attuale. Non c'è motivo perché il trend non prosegua con l'ingresso nell'UE dei nuovi paesi membri.
E' dunque ragionevole ritenere le misure sopracitate in deroga alla libera mobilità della manodopera proveniente dall'Europa dell'Est soprattutto come un accorgimento per evitare che l'opinione pubblica e il consenso politico in paesi chiave dell'UE attuale vengano distolti dagli importanti effetti positivi dell'allargamento(10).
Il sistema è comunque flessibile e adattabile in funzione dell'evoluzione del mercato del lavoro negli attuali paesi membri, provvedendo una rete di salvataggio solo per casi di estrema difficoltà. Non è poi da escludere che, come nei precedenti casi dell'adesione di Spagna e Portogallo, la scadenza di queste misure possa essere anticipata rispetto alle previsioni iniziali.

(1) L'UE continua i negoziati di adesione con Bulgaria e Romania con l'obiettivo di accogliere questi due paesi come membri nel 2007. Per la Turchia, una decisione definitiva è rinviata al dicembre 2004. L’ultimo rapporto relativo al 2002 è disponibile sul sito della Commissione Europea www.europa.eu.int/comm/enlargement/report2002/.
(2) Al di sotto del 30% si situano, in prospettiva, Romania, Bulgaria e Turchia.
(3) Le condizioni fissate per l'accesso nel dicembre 1993 a Copenaghen, erano: il consolidamento delle istituzioni democratiche, la formazione di un'economia di mercato funzionante, l'adozione del corpo della legislazione comunitaria
(4) Una survey completa dei vari studi e dei loro risultati si trova nel documento della Commissione "The Free Movement of Workers in the Context of Enlargement", Information Note, marzo 2001. Lo studio più completo e più frequentemente citato è quello di Herbert Brücker e Tito Boeri: "The Impact of Eastern Enlargement on Employment and Labour Markets in the EU Member States", European Integration Consortium 2000, i cui risultati sono citati di seguito.
(5) Ad esempio se la Germania ammette adesso ogni anno 300 lavoratori dalla Lettonia, non potrà comunque ridurre questo numero nei prossimi anni
(6) Anche in questi casi il periodo transitorio era di 7 anni, con l'eccezione del Lussemburgo, che doveva all'epoca fare i conti con una dura crisi del settore dell'acciaio, per il quale il periodo transitorio era stato allungato a 10 anni. Attualmente il Lussemburgo, completata con successo la transizione verso un'economia di servizi, è il paese europeo con la più alta percentuale di forza lavoro residente straniera (37%).
(7) Si veda l'articolo sul Sole 24 ORE del 23 aprile 2003 dell'On.Benedetto Dalla Vedova: "UE allargata, ma chiusa sulla mobilità".
(8) Peraltro, al di là delle enormi differenze nei costi della manodopera sopra evidenziate, che costituiscono un chiaro motivo di convenienza all'insediamento delle imprese ad est, le trattative per l'ingresso nell'UE di questi paesi prevedono il recepimento dell'acquis comunitario in aree chiave della politica sociale, come: limiti nelle ore di lavoro, standard minimi di sicurezza, parità uomo-donna, etc., riducendo cosí (anche se non eliminando) il rischio di "social dumping".
(9) Si veda la survey contenuta in A.Heriot, "Prospects for the Location of Industrial Activity after EU Enlargement", Centre d'Observation Economique – Chambre de Commerce et d'Industrie de Paris, Giugno 2003
(10) L'ultimo Eurobarometro (disponibile in www.europa.eu.int/comm/public_opinion/) segnalava che nei paesi attualmente membri il 66% della popolazione è favorevole al processo di allargamento, con solo un 22% contrario.




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