I fatti di Ungheria provocarono una profonda lacerazione all’interno del Pci, ed ormai è quasi rituale che ogni dieci anni si ripensi a quei giorni che, comunque, segnarono anche una crescita dell’intero partito, quella che poi condusse alla "strappo" di cui fu artefice il gruppo dirigente guidato da Enrico Berlinguer. Propongo una mia riflessione sulla sofferta "lettera dei 101" che fu pubblicata sul numero di "diario" del 13/19 novembre 1996. Anche se è datata, penso che non abbia perduto nulla in attualità .
Cari amici di "Diario", ho provato una reale commozione nel vedere che la vostra rivista abbia voluto ripubblicare la lettera-appello di cui fui uno dei 101 firmatari. Ritornare alla nostra storia, soprattutto su una pagina poco nota, ma per i 101 molto significativa, è un atto indubbiamente molto importante.
La nostra intenzione era (e nel documento è detto chiaramente) che la lettera di cui era destinatario il Comitato centrale del Pci, fosse pubblicata da "l'Unità ". Qualcuno, invece, la trasmise a "Il Punto" che la pubblicò senza il nostro consenso, per cui fu molto facile per l'apparato tacitarci uno alla volta nelle sezioni del partito, dove ciascuno dei firmatari venne sottoposto al giudizio dei probiviri.
La contestazione che ci venne mossa nelle sezioni non fu tanto sui contenuti, quanto sul metodo: le stesse cose ciascuno avrebbe dovuto dirle negli organi di partito, nelle rispettive cellule di appartenenza e lì battersi per farle passare eventualmente come linea alternativa a quella che il partito aveva presa. Questa era la pratica del centralismo democratico!
Ci si contestò anche il fatto che avemmo la pretesa di riconoscerci, riunirci ed esprimerci come intellettuali, all'interno di un partito che però, a nostro avviso, era esso stesso, in quanto partito rivoluzionario, un organismo politico ed intellettuale insieme. Ma il fatto era che tra di noi 101 e più c'era la consuetudine a lavorare insieme, a scrivere, a far ricerca, a far politica, ed eravamo molto uniti perché la condizione socioculturale – diciamo così – non era delle più allegre per noi comunisti "intellettuali"; messi all'indice (sic!) o tenuti all'angolo dai reazionari e clericali di allora (nel documento sono citati e... non erano fantasmi!), per cui dovevamo trarre forza dalla nostra solidarietà . L'egemonia culturale di sinistra era ancora da costruire e da conquistare, agli inizi degli anni Cinquanta!
Molti di noi – ed io fui tra quelli – "fecero l'autocritica" ed accettarono la linea del partito, pronunciando il loro dissenso nelle sezioni, a volte incontrando anche un certo consenso. Molti altri – e forse i più – preferirono lasciare il partito.
Occorre, però, riflettere sul fatto che l'episodio, prima di tutto, non era nato dal nulla e che, in secondo luogo, sortì più frutti di quanto non si potesse pensare. Era lo stesso "partito nuovo" di Togliatti, nato con la svolta di Salerno, e che conteneva in nuce la contraddizione tra l'allineamento alla politica staliniana e la ricerca della via italiana al socialismo, che aveva fatto crescere quei tanti compagni che, poi, trovarono nei 101 una voce discorde da quella dell'apparato. E con quell'episodio molti di noi, al di là della sconfessione ufficiale, cominciarono a capire che si poteva essere comunisti pur indipendentemente dall'avallo del partito. Cominciò a crescere un fermento, quello stesso che più tardi portò alla cosiddetta sinistra ingraiana, al "nuovo modello di sviluppo" e, più tardi ancora, allo strappo dall'Unione sovietica.
Sono questioni in cui si intrecciano la storia e la vita del partito e quella dei suoi intellettuali organici (così, gramscianamente, ritenevamo di essere!). Ed è un terreno di ricerca che i nostri storici hanno cominciato a battere, ma sul quale occorre ancora scavare e dire di più. Perché il PDS non è nato in alternativa al PCI, ma in piena continuità con la sua storia migliore.
Grazie per l'ospitalità ,
Maurizio Tiriticco