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Referendum elettorale: perché si, perché no |
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25.04.2007
L'Unità , 25.04.07
Perché dico No, Bruno Gravagnuolo
I quesiti del referendum elettorale, sui quali è partita la raccolta
di firme, determinerebbero se approvati uno scenario paradossale e
caotico. Da molti punti di vista. Innanzitutto sanzionerebbero un
ulteriore fallimento della politica e del Parlamento, irrobustendo
l'«antipolitica», già così forte di suo nel Paese. Sia nel caso di
raggiungimento del quorum, sia nel caso opposto, con l'ennesima
svalutazione dello strumento referendario. Ma vi sono ragioni di
principio e di efficienza sistemica ancor più decisive, per tentare
di scongiurare tale scenario.
La più evidente è la seguente. I referendum se vincenti assegneranno
la maggioranza assoluta dei seggi non più alla coalizione, bensì alla
lista vittoriosa. Con l'attribuzione ad essa del premio di
maggioranza. E ciò in assenza di una soglia minima al di sopra della
quale avvenga il conferimento del premio. Teoricamente una lista con
il 24% potrebbe divenire maggioritaria, senza nemmeno quel 25% minimo
oltre cui persino la legge Acerbo del 1923 assegnò il 75% al
famigerato listone di allora! In realtà il meccanismo del referendum
favorisce appunto «listoni acchiappatutto», conglomerati eterogenei
concepiti dall'alto per evitare di incappare negli sbarramenti
raddoppiati alla Camera e al Senato. E conglomerati destinati poi a
scindersi, all'indomani del voto: in tanti frammenti in Parlamento.
Ciascuno dei quali deve preventivamente cercare di massimizzare la
sua utilità «a monte», dentro i listoni. Resta altresì il Porcellum,
anche col referendum. Anche se si cancellano le candidature multiple
nei collegi.
Con l'aggravante però che i pacchetti di candidature saranno blindati
al vertice, tra i frammenti partitici che compongono le liste.
Frammenti decisivi nei vari collegi e su scala nazionale, stante la
polarizzazione dell'elettorato, risolta di volta in volta anche da
poche migliaia di voti. Risultato: acerrime polemiche sui brogli. E
una sorta di partitocrazia plurale dentro partitoni momentanei.
Tutto questo vale sia per il listone premiato e più grande, sia per i
listoncini alleati dentro le coalizioni. Ne deriverebbero effetti
disgregatori a catena e risse a non finire, in una coalizione e
nell'altra. Con ricadute davvero devastanti sulle istituzioni e sulla
loro funzionalità . Con l'aumento del tasso di litigiosità . E
l'impennarsi dei fenomeni degenerativi e di ricatto reciproco, dentro
il ceto politico. Non senza la necessità di por mano «dopo» a
inevitabili modifiche della legge, capaci peraltro di innestare
ulteriori e inconcludenti diatribe.
Fin qui l'argomento sistemico e di principio. Ma c'è un altro
argomento, squisitamente politico, che tocca in particolare le sorti
della coalizione attuale di governo. La legge referendaria è infatti
diretta contro i piccoli del centrosinistra che annovera partiti
sotto il 4%. E anche contro i medi, costretti a coalizzarsi
forzosamente. La prima conseguenza sarebbe quella di lacerare l'unitÃ
del centrosinistra, scatenando defezioni e passaggi di campo, in caso
di accordi preventivi impossibili. Senza escludere magari assemblaggi
forzosi (e provvisori) in un «grande centro», inclusivi anche di
pezzi di centrodestra. Viceversa la destra che riconosce la
leadership di Berlusconi ha più chance, col sistema referendario del
listone baciato dal premio. Poiché dispone sulla carta di maggiore
coesione tra An e Forza Italia, e maggiore potere elettorale dalla
somma delle due.
Con l'ipotesi che anche la Lega sia tentata di accorparsi
momentaneamente, per poi scindersi (come pure un Casini alle
strette). In conclusione la vittoria del referendum sarebbe un
iattura. Da tutti i punti di vista. Per l'Italia in primo luogo e per
il centrosinistra in particolare. Non c'è che altro da fare che una
legge concordata in Parlamento. Non firmare i quesiti. Oppure alle
brutte non andare a votare e far mancare il quorum.
***
Perché dico Sì
Stefano Ceccanti
Non c'è niente di più difficile che convincere un qualsiasi organismo
a cambiare le regole con cui è eletto. Infatti il primo e più forte
motivo per sostenere i referendum elettorali è la spinta propulsiva
che innescano, aiutando il Parlamento a superare i veti incrociati
che lo paralizzano. Nel caso specifico troppi eletti non lo sarebbero
più con un sistema diverso che rendesse nuovamente visibili i
candidati; inoltre i poteri di veto eccessivi dei piccoli partiti
della maggioranza non si possono rimuovere col loro consenso.
Basti pensare a quello che è successo lunedì: di fronte all'annuncio
di piccole modifiche elettorali, le più incisive delle quali
scatterebbero nel 2016 (!!) ci sono già state minacce di crisi. Solo
una forte pressione esterna, quella stessa a cui ricorreremo per
eleggere ad ottobre l'assemblea costituente del Pd, è in grado di
aiutare i riformatori che sono in Parlamento a negoziare da posizioni
di forza. L'alternativa alla raccolta non è quindi una riforma in
Parlamento, è il puro e semplice mantenimento del Porcellum o qualche
lifting minimale per cui l'alleato dei riformatori presenti in
Parlamento è proprio il referendum. Tanto più che una buona legge si
può fare sia prima del referendum (come accadde nel 1993 con
l'elezione diretta del sindaco) sia dopo; in quest'ultimo caso col
solo limite di non ripristinare la normativa abrogata.
Il secondo motivo è che i quesiti, pur imperfetti perché meramente
abrogativi con il vincolo che devono essere ritagliati in modo da
lasciare una legge immediatamente applicabile, indicano direzioni
giuste. Quello che elimina le candidature multiple incentiva il
ritorno alla conoscenza diretta tra eletti ed elettori. Quello che
incide sulla formula elettorale elimina anzitutto gli sbarramenti
piccoli e lascia solo quelli significativi (il 4% alla Camera e l'8%
regionali al Senato) sin da subito, altro che 2016! Inoltre obbliga
chi vuole ottenere il premio a fare una lista insieme e non solo una
coalizione di alleati-rivali. Sappiamo bene che esistono meccanismi
migliori: un candidato uninominale comune o una lista corta lo
sarebbero e tuttavia la direzione in cui ci si muove è quella. Dal
quesito esce una legge migliore di quella esistente; una tra le tante
migliori del quesito potrà essere approvata dal Parlamento.
Il terzo motivo è quello di essere fedeli alle promesse elettorali:
in tutta la campagna si è detto che il centrosinistra non andava al
Governo per tirare a campare ma per imprimere una profonda
discontinuità , a cominciare dalla legge elettorale, uno degli atti
più gravi varati dalla Cdl. Quell'impegno va onorato e la scelta di
rompere il metodo unilaterale non va usata come un alibi: intanto la
maggioranza larga può e deve essere costruita nel paese, nelle code
tra le firme, tra gli elettori duramente colpiti da quel sistema,
premessa dell'intesa parlamentare.
Il quarto motivo (almeno per noi) è quello di non essere
schizofrenici con la scelta fatta per il Pd: non si tratta di
strumentalizzare la legge elettorale alle sorti del Pd, ma di
rispondere coerentemente sul piano delle regole alle scelte fatte sul
piano dei soggetti. Il Paese ha bisogno di grandi scelte per
interrompere il declino: non ci sono grandi scelte senza partiti
grandi e senza regole esigenti.
Se così è, non si usi allora l'argomento che si metterebbe in
pericolo il Governo: un argomento che prova troppo e che vale per il
referendum come per la nascita del Pd. I pericoli per il Governo
stanno nella rottura del rapporto di fiducia col Paese. Il Governo
tiene se è forte quel rapporto e ciò può accadere solo se è
supportato da un grande e nuovo partito a vocazione maggioritaria,
solo se poggia su regole che premiano l'efficienza, la capacitÃ
decisionale di lungo periodo, non i poteri di veto.
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